Archive for settembre 2006
Pagliarani: l’unità e la deriva dei linguaggi di Daniele Piccini
Nell’ occasione della sua ristampa integrale, l’opera di Elio Pagliarani – complessa, interamente mossa fino al limite della contraddizione – può servire, forse, anche da rilevatore e sismografo. Dico da strumento di accertamento, e naturalmente di attraversamento, di una difficoltà oggettivamente incombente sui poeti attivi da una certa data almeno del Novecento. Pagliarani nasce nel 1927, che è quanto a dire una generazione dopo quella dei grandi maestri nati nei primi anni Dieci (quella dei Bertolucci, Caproni, Sereni, Luzi). È la generazione, quella del poeta romagnolo e presto milanese d’adozione, che si trova dentro una frattura senza precedenti; generazione che la abita e che contribuisce, sentendola in profondità, a determinarne la dinamica, alla ricerca di una via “altra”. Dirò subito che si ha l’impressione, rileggendo tutto Pagliarani, di una sorta di deriva, di esplosione di frammenti o schegge, che a una certa altezza cronologica, quasi per miracolo, riescono a riformare un organismo unitario, attraversato da spinte contrastanti eppure legato da interna coesione; frammenti, zolle, faglie in movimento che poi, a un volgere di situazioni e di tempi, tornano a obbedire a una logica di s_parazione, di distacco, di nuova deriva. E inutile dire che si sta parlando di quel microcosmo drammatico-narrativo che è La ragazza Carla, il coagulo di forme, modi, linguaggi che sta al centro dell’opera di Pagliarani e che obbliga il resto, il lavoro circostante dell’ autore, a una sorta di paragone. Non si tratta solo o tanto di rilevare lo spicco di questo poemetto (uscito sul "Menabò" nel ’60 e in volume nel ’62, ma elaborato nel corso degli anni Cinquanta), quanto di leggere attraverso di esso, nella sua luce, il tentativa febbrile e a tratti concitato di risolvere problemi di dizione, di stile, di "genere" (come Pagliarani invitava a fare in un fondamentale saggio del ’57) che l’autore ha intrapreso in tutta la sua parabola. Se La ragazza Carla è un mirabile unicum insieme lirico, narrativo, testimoniale, e insomma un organismo problematico (il curatore Andrea Cortellessa, autore di un ricco e documentato saggio introduttivo al volume garzantiano, ricorda Bachtin e la teoria del romanzo come contenitore polifonico di idee contrastanti sul mondo), è d’altronde il punto di arrivo (e poi di ri-partenza) di un assillo che aveva contrassegnato da subito l’operare del poeta. il quale già in Cronache e altre poesie del 1954 aveva mostrato in atto, attraverso una scrittura inclusiva, affamata di modi irriducibili alla lirica, la sua aspirazione di accogliere in poesia una serie di linguaggi non centrati sull’ "io" del poeta e capaci di rendere conto di una realtà più ampia, stratificata, corale di quanto non permettesse una certa tradizione. L’assillo c’era, e forte: certi testi del libretto d’esordio (celebri "I due temi svolti" o ancora "I goliardi delle serali in questa nebbia") già registravano in presa quasi diretta lingue, stili, modi di riporto dalla realtà sociale-linguistica’ esterna’ alla poesia. Ma, bisogna dire, in Pagliarani (già avanzatissimo in questo suo primo operare, eppure ancora all’incrocio tra più opzioni) non c’era soltanto questo. Basterebbe a dimostrarlo un libretto che appare, nella ‘marcia gloriosa’ che conduce alla Ragazza Carla, quasi un ostacolo, un inciampo, una contraddizione. Sì, perché lnventario privato, del 1959, riporta al centro della scena, con forza, con rabbia, con urgenza, l’"io" e la sua sanguinante problematica esistenziale-amorosa e, con essa, la possibilità di rifare, variandola, una poesia di tono personale, di confessione e di conoscenza sotto specie individuale-universale (che è quanto dire lirica). Si tratta, invero, di una prova non secondaria di bravura artigianale, in cui una grazia tradizionale trova forme e oggetti nuovi (basterà ripensare ai sapierti e stranianti accostamenti verbali di "E difficile amare in primavere"), erompendo fresca e riuscendo a evitare la ripetizione di una maniera usurata. È indubbio, tuttavia, che dal punto di vista dell’ operazione poetica messa in cantiere da Pagliarani, si tratti di un rigurgito individualistico; eppure il suo tono contribuirà all’impasto, alla miscela della Ragazza Carla, con la correzione fondamentale che quei sussulti vitali, esistenziali, quei tremori vissuti all’ombra della Storia (una Storia magari ripugnante) saranno nel poemetto trasposti e vissuti grammaticalmente in terza persona. Ecco l’importanza del genere, cui Pagliarani fa riferimento nel suo saggio del ’57 (Ragione e funzione dei generi), dicendo tra l’altro che un lessico poetico nuovo porta inevitabilmente con sé altre strutture anche sintattiche (come già si percepiva nei testi più avanzati delle Cronache), insomma, altri generi. La forza del poemetto è proprio quella di far coagulare spinte e controspinte, convogliando in un impasto dalle molte escursioni – ma anche dalla riuscita saldezza di fondo-lirica, lingua colta e voce d’autore gnomicamente atteggiata (ho detto altrove che certe parti lirico-moralistiche della Ragazza assomigliano per funzione ai cori delle tragedie manzoniane); di tenere insieme la trascrizione potenzialmente centrifuga dei linguaggi (i brani dal manuale di dattilografia per esempio) e il loro accorto montaggio, prima e sopra tutto di natura ritmica e tonale. Perché la riuscita della Ragazza e il suo miracoloso tinnire all’ orecchio tra suono e disarmonia, tra canto e sua smorzatura o negazione interna, è di natura anche e propriamente tecnica. Se è vero che le inserzioni manualistiche, insomma di prosa funzionale versificata, si prendono il loro spazio, è altrettanto certo che nell’insieme c’è un organismo pulsante ritmicamente a fare da sfondo, da contenitore. Non solo, come sarebbe più ovvio, nelle poche zone che l’autore ritaglia per la propria voce, ma nel corpo della narrazione, là dove il linguaggio si stira per seguire sintassi, modi e sprezzature del parlato. Qualche esempio? Da I, 5: "(Alla ditta hanno detto alla signora / fa bene in officina, ma non è / affabile, e chi lo sa come la pensa?) Sì, e prende / ventiseimila con la contingenza" (dove si mescolano varie misure regolari e una quasi-rima); o ancora, da II, 2: "Sono momenti belli: c’è silenzio / e il ritmo d’un polmone, se guardi dai cristalli / quella gente che marcia al suo lavoro / diritta interessata necessaria / che ha tanto fiato caldo nella bocca / quando dice" buongiorno / è questa che decide / e son dei loro / non c’è altro da dire". Pagliarani, davvero, non solo organizza una lingua corale, una scrittura a più voci, ma forgia e modella una struttura stilistica (prosodica, tonale, lessicale, sintattica) confacente al racconto in versi: un racconto che, se ha qualcosa dei drammi brechtiani, è più vicino a certo Pasolini che non al coevo Sanguineti (Cortellessa infatti accenna alla trafila che dal Pascoli dei poemetti porta al Pasolini narrativo in metrica). Questo è il Pagliarani della Ragazza Carla e dintorni, quello che approda nel ’61 alla celebre antologia dei Novissimi, a cura di Alfredo Giuliani: un autore alla ricerca, più che di una rottura, di una inclusività, di una tendenziale integrità sovra-personale e sovra-lirica della scrittura poetica. li punto è che il sovrano e sottilissimo equilibrio della Ragazza apparirà via via non solo irriproducibile in sé e per sé, come è ovvio, ma anche non più proseguibile quanto a direzione di ricerca. Al suo posto, a partire dalla Lezione di fisica del 1964 (poi compresa nella più ampia Lezione di fisica e Pecaloro, 1968), si installerà una nuova divaricazione dei linguaggi, una diaspora delle lingue: una più che altro oggettiva rappresentazione, in forma di montaggio sì ma non nel senso precedente, della materialità dell’ orizzonte verbale-sociale. La fame di una lingua non poetica si esprime anche qui, non solo in testi propriamente epistolari-testimoniali, molto ragionativi (come "Oggetti e argomenti per una disperazione", diretto a Giuliani), ma anche in altri, in cui è il linguaggio della fisica o dell’economia a imporsi all’attenzione del poeta: solo che il ritaglio e l’aggiustamento millimetrico del poemetto si trasforma in un collage senza altrettanti antidoti e anticorpi; e il linguaggio alieno, ‘altro’ dalla poesia, si stende a mani di colore dense e compatte. L’autore, di pari passo, va sempre più facendo da organizzatore di materiali, strada che porterà infine alle raccolte citatorie (brani della tra:dizione decontestualizzati e resi autonomi, con un nuovo significato) degli Esercizi platonici (1985) e degli Epigrammi ferraresi, questi ultimi tratti da prediche di Savonarola (usciti nel 1987 e con aggiunte nel 2001). Anche in questo caso, non si tratta in prima istanza di stabilire , gerarchie di valore (ché l’operazione linguistica e assemblatoria della Lezione è di notevole interesse), quanto di rilevare l’oggettiva rottura di un equilibrio; e, se si vuole, l’abbandono di un’idea di poesia come integrità-integralità di rappresentazione, testimonianza e conoscenza, ricreazione e reinvenzione in uno stampo onnicomprensivo e unitario. Se la linea che dalla Lezione porta per restrizione dell’ orizzonte versale – ma permanendo l’assemblaggio di materiali ‘altri’ – agli Epigrammi contraddice anche a livello di genere La ragazza Carla, invece La ballata di Rudi, che esce nel 1995 dopo una trentennale elaborazione, permette di verificare all’interno dello stesso genere di riferimento – quello del poemetto -la portata dello scarto, la rottura e semmai i nuovi equilibri cercati. li tentativo è analogo e insieme differente: nella Ragazza un tempo definito, il ’48, e un punto di vista sociale (quello di Carla) ben operante seppure non esclusivo; nella Ballata una ridda di personaggi attraverso un più lungo arco di tempo e soprattutto, a poco a poco, il desiderio di una diversa onnicomprensività – relativa all’intero quadro storico-sociale – che prende il sopravvento sulla forma del ‘poemetto di formazione’, prima usato come perno. Il dato impressionante, al di là del resto, è l’opacatura del tratto, con i versi lunghissimi e destrutturati che ricordano quelli della Lezione (pur non mancando qua e là guizzi e scarti argentini), senza più una misura-base. L’incupirsi dell’orizzonte storico, la complessità di una dinamica sociale ben più ardua da rappresentare, l’ambizione stessa di tenere insieme, per emblemi, il racconto di una temperie complessiva, determinano lo sformarsi di ogni campitura. Credo, come già suggeriva Stefano Crespi citato a sua volta dall’autore, che questo racconto per flussi di coscienza, per ininterrotte colate verbali abbia qualche cosa di epocale, nel suo stesso grigiore. E che di nuovo sia in qualche misura pasoliniano: di un Pasolini che non essendo morto non può che fronteggiare con orrore, se così si può dire, il panorama che osserva, attitudine che gli strumenti stilistici registrano (certo però in Pagliarani c’è un elemento ideologico più costituito e specifico rispetto al profetico Pasolini ultimo). Ho osservato altrove che i brani più pregnanti sono ancora quelli in cui un microcosmo sociale-antropologico è rappresentato verbalmente dall’interno (i capitoli iniziali sulla riviera adriatica del dopoguerra; quelli milanesi in cui a parlare è il tassista abusivo Armando) e che i tagli e le incursioni più documentarie sulla società neo-capitalistica (come l’avrebbe definita Pasolini) sono inevitabilmente di minor efficacia prima di tutto linguistica, in quanto sfuggono a una presa inclusiva unificante, per divenire in buona misura corpo estraneo. Fa in qualche modo impressione leggere tra i testi dispersi aggregati nel volume complessivo di Garzanti (che datano a partire dal 1946) una poesia addolorata e commossa scritta da Pagliarani nel 1995 proprio su Pasolini (IL’ angoscia della tua voce incrinata spezzata da un vento gelido di morte"), così come la nota che riconnette il lavoro degli Epigrammi ferraresi e dintorni a un dialogo con il poeta delle Ceneri e della Religione del mio tempo. Mi pare ci sia il segno di una ricomposizione di fratture ideologiche, rabbiose, a volte anche ingenerose. E un riconoscimento. Forse anche un’indicazione di lettura, per comprendere un’ opera, quella di Pagliarani; che si aggrega e si disperde intorno all’ assillo di dar voce all’ altro da sé, al tormento dell’ epoca, alla Storia, senza rimuovere il tremore interno, la fioritura e insieme il gelo che la incrina e la spezza.
Da Poesia n. 204
ASTE ANOMALE – POETI IN LIBERA OFFERTA…
Carmina non dant panem: con il proposito di smentire il motto latino, il 16 settembre, al Frantoio di Capalbio, si svolgerà un originale meeting, ispiratrice Giovanna Nuvoletti, consorte del presidente Rai Claudio Petruccioli. "Non è un premio letterario, è solo un gioco", spiegano gli organizzatori. Poeti noti e non metteranno all’asta loro liriche inedite: le opere dovranno essere autografe e firmate; gli autori ne daranno pubblica lettura e s’impegneranno a non pubblicarle per un anno. Un banditore cercherà di alzare il prezzo di aggiudicazione: vincerà il poeta che guadagnerà di più, mentre gli acquirenti potranno godere privatamente dei versi per 12 mesi. La selezione tra gli aspiranti concorrenti – la gara è aperta a tutti – è affidata a una giuria composta da sole donne ad esclusione del presidente, Alberto Asor Rosa. "Si metterà a confronto l’importanza fondamentale della poesia con la miserevole condizione dei suoi autori", auspica la Nuvoletti, "sperando che il pubblico ponga rimedio allo squilibrio e dimostri che ‘carmina dant panem’".
da L’Espresso – Dagospia.
Del rinnovamento della poesia dialettale siciliana di Marco Scalabrino
Abbiamo la data dell’inizio del movimento rinnovatore: quella del Primo raduno di poesia siciliana svoltosi a Catania il 27 Ottobre 1945. A Palermo, prima che terminasse il 1943, Federico De Maria venne a trovarsi a capo di un nucleo di giovani poeti dialettali: Ugo Ammannato, Miano Conti, Paolo Messina, Nino Orsini, Pietro Tamburello, Gianni Varvaro, e nell’Ottobre 1944 venne fondata la Società degli Scrittori e Artisti di Sicilia, che ebbe sede nell’Aula Gialla del Politeama, e in primavera, all’aperto, nei giardini della Palazzina Cinese alla Favorita. <Tra la fine del ’43 e l’inizio del ’44 – puntualizza Paolo Messina – in Sicilia per primi avevamo respirato, l’acre pungente ciauru della libertà, mentre il quadro prospettico del mondo già mutava radicalmente. Da qui l’esigenza di rifondare non solo la società civile, ma anche il linguaggio. Nel 1946, alla scomparsa di Alessio Di Giovanni, quel primo nucleo di poeti che comprendeva le voci più impegnate dell’Isola prese il nome del Maestro e si denominò appunto Gruppo Alessio Di Giovanni >. Sul versante ionico, nella Catania del ’44, il gruppo di cui Salvatore Camilleri era l’animatore: Mario Biondi (nella cui sala da toeletta di via Prefettura si tenevano gli incontri diurni, mentre di sera li attendeva il salotto di Pietro Guido Cesareo, in via Vittorio Emanuele 305), Enzo D’Agata, Mario Gori ed altri già appartenenti all’Unione Amici del Dialetto, si ribattezzò (dietro suggerimento di Mario Biondi) Trinacrismo. <Il dialetto – dichiara Paolo Messina su lanuova scuola poetica siciliana –era per noi un modo concreto di rompere con la tradizione letteraria nazionale, per accorciare le distanze dalla verità. Naturalmente, eravamo consapevoli dei rischi dell’opzione dialettale, che se da un lato ci portava alla suggestione della pronunzia, dall’altro restringeva alla Sicilia il cerchio della diffusione e della attenzione critica.> <Io – soppesa Salvatore Camilleri – intendevo rinnovare la poesia dall’interno, per evoluzione spontanea del siciliano, attraverso le fasi ineluttabili del processo di sviluppo linguistico; Paolo Messina pensava di dare subito un taglio netto al passato, e lo diede. Il motivo dei nostri diversi atteggiamenti sta nel fatto che io avevo prima letto Croce e poi i simbolisti, Paolo aveva letto prima i simbolisti, poi Croce.> <Oggi la poesia dialettale – scrive tra l’altro Giovanni Vaccarella nella prefazione a POESIA DIALETTALE DI SICILIA del 1955, – è poesia di cose e non di parole, è poesia universale e non regionalistica, è poesia di consistenza e non di evanescenza. Lontana dal canto spiegato e dalla rimeria patetica, guadagna in scavazione interiore quel che perde in effusione. Le parole mancano di esteriore dolcezza e non sono ricercate né preziose: niente miele e tutta pietra. Il lettore di questa poesia è pregato di credere che nei veri poeti la oscurità non è speculazione, ma risultato di un processo di pene espressive, che porta con sé il segreto peso dello sforzo contro il facile, contro l’ovvio. Perché la poesia non è fatta soltanto di spontaneità e di immediatezza, ma di disciplina. La più autentica poesia dei nostri giorni è scritta in una lingua che parte dallo stato primordiale del dialetto per scrostarsi degli orpelli e della patina che i secoli hanno accomunato, per sletteralizzarsi e assumere quella condizione di nudità, che è la sigla dei grandi.> <I dialettali – osserva Antonio Corsaro, in prefazione a POETI SICILIANI D’OGGI del 1957 – non sono mai stati estranei alle vicende della cultura nazionale, anche se, disuguale è il loro piano di risonanza. Nell’ambito di una lingua, per dire, ufficiale, che assorbe e trasmette tutte le vibrazioni di un’epoca, il dialetto si presenta come una fuga regionale. Ma in un periodo come il nostro che nella poesia ha versato gli stati d’animo, l’essenza umbratile e segreta dello spirito attraverso un linguaggio puro da ogni intenzione oratoria, i poeti dialettali si trovano nella identica situazione dei loro compagni in lingua, senza che neppure la difficoltà del mezzo espressivo costituisca ormai una ragione valida di isolamento. Tanto più che i nostri lirici in dialetto sono già arrivati a un tal segno di purezza e a una tale esperienza tecnica da non avere nulla da perdere nel confronto con i lirici in lingua. Anzi, in un certo senso, i dialettali ne vengono avvantaggiati per l’uso che possono fare di una lingua meno logora, attingendola alle sorgenti che l’usura letteraria suole meglio rispettare.>
Colpevole di latitanza vi racconto un poco di cose che stanno accadendo in questi giorni nell’Universo della Poesia (e mi scuso perchè i miei problemi potrebbero protrarsi ancora per qualche giorno): la prima cosa è la nascita della rivista on-line "L’Attenzione" fondata da Fabiano Alboghetti, Fabrizio Centofanti, Marco Guzzi, Gian Ruggero Manzoni, Massimo Orgiazzi, Antonella Pizzo, Alessandro Ramberti e Massimo Sannelli: la trovate su www.lattenzione.com ; poi ricordo che Federico Italiano ha appena dato alle stampe il poemetto "I Mirmidoni" per l’editore il Faggio nella collana Ariele diretta da Giancarlo Majorino; su Poetry International nel numero di settembre articolo dedicato a Milo De Angelis che vi consiglio caldamente; è uscita anche "Adiacenze" che via mail propone i materiali del sito www.milanocosa.it e che potete chiedere di ricevere scrivendo a info@milanocosa.it il progetto e la direzione sono di Adam Vaccaro, in redazione (ancora) Fabiano Alborghetti, Claudia Azzola, Fabrizio Bianchi, Laura Cantelmo e Roberto Caracci, collaboratori Gabriela Fantato, Gio Ferri e Gabriella Galzo; dal 6 al 10 Festival della Letteratura di Mantova, sabato alle 21.15 al teatro Bibiena Tonino Guerra presenterà Amaracmand (tradotto: "mi raccomando) spettacolo sulla poesia dialettale romagnola contemporanea. Credo d’avere detto tutto quello che ho saputo in ‘sti giorni… State bene.