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Da Matteo Fantuzzi quanto di buono offre la poesia italiana contemporanea. Forse.

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Massimo Gezzi, su Gabriele Frasca. Da Il Manifesto 10.01.08
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Un luogo comune piuttosto diffuso vuole che i poeti siano “giovani” fino ai cinquant’anni. Se è così, il titolo che Gabriele Frasca ha scelto per la corposa autoantologia edita da Luca Sossella Editore nella bella collana «arte poetica» è quanto mai azzeccato: Prime. Poesie scelte 1977-2007, in cui al trentennio di scrittura rispondono i cinquant’anni tondi del poeta, narratore, studioso e traduttore (di Beckett e Philip K. Dick). Chi conosce l’opera in versi di Frasca, però, non fatica ad accorgersi che quel titolo è tutt’altro che innocente: l’autore di Rame, Lime e Rive, infatti, con Prime aggiunge un ulteriore anello alla catena paronomastica che collega i titoli di tutte le sue raccolte e di diverse loro sezioni (rimerai, rimasti, rimastichi, rivi…), tutti escogitati a partire da una parola sempre evocata ma mai dicibile (rime) che per la prossima raccolta, inedita ma significativamente anticipata da un paio di sezioni di questa antologia, si travestirà ulteriormente in Rimi.
Va subito detto che Prime è molto più che un’antologia: la maniacale e programmatica attenzione di Frasca alla forma (sia pure «fluida», cioè mai paga di se stessa ma sempre ripensata, ricominciata da zero) fornisce a questo florilegio una colonna vertebrale nascosta. A scorrere l’indice di Prime, infatti, ci si trova davanti a una sorta di struttura latente che riordina alcune “vecchie” sezioni secondo un criterio giocosamente numerico: all’ormai celebre poemetto Uno di Rive («uno finisce che si sveglia un giorno / e dice ma che cazzo ci sto a fare») seguono infatti le sezioni 2 (da Rame), Trismi (da Lime), Quarti (ancora Lime), e poi gli Orologi di Rive (dai quarti all’intero), fino alle sette prose di Sette che occupano, va da sé, la settima posizione. Oltre a ciò, Frasca si diverte a battezzare altre sezioni storpiando i titoli dei vecchi libri: Rame diventa Ramaglie, Lime si montalizza in Limine e Rive si politicizza in Rivolte. Già, la politica: perché l’abilissimo ludus di Frasca non vuole mai risolversi in se stesso né arrendersi all’autocompiacimento.
L’ossessivo smontaggio e ricostruzione di forme metriche a partire da quelle chiuse della tradizione, stigma ormai inconfondibile del «dolce stilo» di Frasca, da una parte si configura infatti come strumento per intaccare memorabilmente il flusso altrimenti informe e babelico del presente (e quindi per resistergli); dall’altra intende trasferire al lettore questa stessa capacità di resistenza: lettura, ha auspicato altrove Frasca, come difficile recupero della «capacità di essere “senzienti” (di tornare a udire “distinte” le cose del mondo)».
Oltre ai generi e alle forme (l’ipersestina di Poesie da tavola, il poemetto in quartine di ottonari di Quarti, le nuove bellissime “prose” di Rimi, in cui i periodi sono tutti lunghi due endecasillabi perfetti), il lettore troverà in Prime i temi ossessivi della produzione di Frasca: lo scorrere inesorabile del tempo che fa di ogni vita un «anello del collare»; la vuota e materialistica ripetizione di un esistere scandito da gesti automatici, quasi in serie; la difficoltà a distinguere visivamente ed eticamente il riflesso della nostra faccia sullo schermo (come nella bella Battito d’ali) dalle immagini televisive dei morti di una guerra e dai loro assassini.

Written by matteofantuzzi

26 gennaio 2008 at 10:16

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I lettori ci sono di Chiara De Luca
 
… è proprio vero che i luoghi li fanno le persone, e ogni luogo diventa meraviglioso nel momento in cui ne divieni parte e ti ci riconosci. Non ho mai amato particolarmente Milano, non fosse che la abitano amici che troppo raramente incontro. Eppure ci ho passato due giorni indimenticabili, di quelli che t’incidi bene nella memoria per non perderne alcun particolare e attingervi nei momenti di solitudine e sconforto. Due giorni all’insegna della poesia, dell’incontro, in cui, eccezionalmente, non mi sono mai sentita sola neppure per un istante, né ho mai desiderato di esserlo. Milano era la stessa di sempre, con la frenesia delle sue strade in cui la patente oltre che licenza di guida è anche licenza di uccidere, il malinconico scorrere della metro, che ci frulla tutti insieme in un’unica nostalgia, incravattati e intacchettati o meno, muniti di fisarmonica o libri nello zaino, di ventiquattrore o borsa peruviana; l’affollato ondeggiare dei tram sulle rotaie e gli improperi degli autisti, il sali e scendi dalle scale mobili alle stazioni e il cazzeggiare dei giovani davanti ai bar eleganti, il rotolare arreso lungo le strade dello struscio e l’innalzarsi indifferente al cielo di palazzi infiniti. Cielo grigio e tanta pioggia ovunque, eppure… Milano era bella, viva, era una casa accogliente. E tutto questo perché per qualche giorno avevi l’impressione che la poesia fosse finalmente riuscita a colonizzarla.
Mai come in occasione del ventesimo compleanno della rivista “Poesia, la poesia ha ottenuto tanta risonanza sulle pagine di tutte le maggiori testate nazionali – perfino su quelle dei quotidiani distribuiti gratuitamente nei metrò – in radio, su “Vanity Fair” (!), ma soprattutto negli occhi e sulla bocca della gente. Quella che lunedì 14, oltre un’ora prima dell’inizio dei festeggiamenti per il ventennale, attendeva pazientemente sotto la pioggia che si aprissero le porte di Palazzo Reale. Il pellegrinaggio è continuato senza tregua, e ti colmava il cuore di emozione vedere tutto quell’avvicendarsi di visi, di occhi, delle più diverse età, estrazioni sociali, mise e provenienze. Finché, alle nove, ora prevista per l’inizio dell’evento, la Sala delle Cariatidi era strapiena, e si era già superato il limite massimo di trecento presenze previsto sulla base di considerazioni di sicurezza. Grazie all’intervento di Sgarbi è stato consentito l’accesso ad altre duecento persone, ma moltissime sono dovute restare fuori e non hanno potuto assistere all’evento.
Sarebbe stato bello effettuare un sondaggio per individuare le caratteristiche del famigerato Pubblico della Poesia, finalmente uscito allo scoperto. Ma in fondo bastava osservare e origliare, o stare accanto al banchetto dove si vendevano i libri e le copie del numero speciale della rivista, per capire quanto fosse variegato il pubblico: dai poeti agli intellettuali, dal professore alla casalinga incuriosita, da chi aveva la collezione completa di “Poesia” dai tempi dei suoi esordi, a chi, pur vivendo a Milano, ne aveva sentito parlare per la prima volta soltanto negli ultimi giorni. E poi giovani e giovanissimi, qualche svitato e qualche pallone gonfiato.
Che tutta quella gente fosse lì per Sgarbi e Cacciari? Boh, in fondo li si può incontrare ovunque, e se non t’interessa la poesia non ti “sciroppi” tre ore di letture per dire “io c’ero”.
Certo Sgarbi è comparso in una veste insolitamente pacata e gentile, Cacciari ha fatto il discorso più affascinante, profondo e pertinente rispetto alla poesia, Gardini ha dato dimostrazione di grande professionalità, competenza e conoscenza linguistica.
Ma quella gente era lì per la poesia e per “Poesia”. Era lì per Crocetti, per Angela Urbano, per chi ogni mese, non si sa come, riesce a far uscire “Poesia” e a farla arrivare in edicola, combattendo con l’inaffidabilità delle poste, le complicazioni della distribuzione, l’impossibilità di accontentare tutti, perché la richiesta e troppo superiore ai mezzi che dovrebbero soddisfarla. Eppure loro non si arrendono, e i loro lettori, evidentemente, in qualche modo, riescono a raggiungerli e radunarli.
Quella gente era lì per i tre grandi poeti che si sono avvicendati sul palco: Tony Harrison, ottimo performer, un vero attore, lo straordinario Seamus Heaney, il dolcissimo Patrikios. Era lì per la voce di Moni Ovadia, che ha saputo interpretare i testi senza viziarli di quell’eccessiva enfasi che tanto spesso caratterizza le letture attoriali.
È difficile dire la successione di emozioni che provavi ascoltando, nella cornice decadente eppure sontuosa ed elegante di palazzo Reale, guardandoti intorno nel silenzio e nella rispettosa attenzione generale, vedendo la gente in piedi, seduta, accovacciata ovunque… eri felice per la poesia…
E Milano era bella anche la sera, e anche martedì. Perché la poesia era viva nell’emozione che ti aveva lasciato, nel volto e nelle parole di Heaney, uno dei poeti più umili e alla mano che abbia mai incontrato, così uguale alla sua poesia. Era viva nei racconti di Patrikios, che a dispetto delle torture e della prigionia subite, è persona di grande umanità e ironia, curiosa e attenta.
L’attenzione che ha ricevuto in questi giorni “Poesia” dimostra come si debba puntare prima di tutto sul lavoro paziente per arrivare al lettore. La Crocetti Editore è una piccola realtà, una realtà che ogni giorno combatte per non affondare, in una lontana periferia che sembra posta su un altro emisfero rispetto ai palazzi del potere, e alla fabbrica del money. Eppure l’editore è uno che lavora sodo e non molla, che ha tradotto decine di libri dal greco e pubblicato migliaia di poeti italiani e stranieri. Uno che non si vede in giro a festival e letture, cene e dopoletture, a tirar giacchette o elemosinare attenzione. Perché se l’è guadagnata con la sua opera instancabile.
 Ok, non ci sarà un ventennale al giorno, i riflettori si spegneranno presto, lo staff continuerà a fare salti mortali e ciascuno a lavorare per dieci, nessuno aprirà il portafoglio, se non per i festival di poesia che ospitano comici, cantantucoli e attori di soap opera. Ma i lettori di poesia ci sono eccome.

Written by matteofantuzzi

20 gennaio 2008 at 14:32

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Mus,cio e roe (Muschio e spine) di Fabio Franzin, Le Voci della Luna, Sasso Marconi 2006 pp.151.
 
Ogni libro di poesia è un luogo in cui si è invitati a entrare, dove c’è un percorso da compiere, dove ci si può perdere o ci si può ritrovare, si può seguire la traccia lascia dall’autore o riconoscere la propria, vedere come si intersecano, o come forse le orme coincidono. Mus.cio e roe di Fabio Franzin spalanca le porte di un mondo di cui forse troppo poco spesso ci si ricorda: quello degli affetti familiari, dei legami più autentici che ci stringono gli uni agli altri, quello di un tempo che si dipana più lentamente, lascia più spazio a mani che si intrecciano, sguardi che si incrociano in un dolore comune, una sofferenza, o una gioia condivisa. Questo libro dice di un territorio dove l’umanità più autentica sembra ancora possibile, per quanto necessariamente minacciata. E il dialetto stesso, a sua volta minacciato, se ne fa specchio, la incarna, le restituisce voce, preservando la propria. Il dialetto è ciò che custodisce, contiene, tramanda: “vàrdene, e scólteme: no’è pì posto, qua, pa’ i presepi, / no’è pì posto pa’ i pastori, pa’e paròe, pa’ i paesi / e ‘l paesàjio, paa pase… però, ‘scólteme, Mare: / ‘ndarò in zherca del tó mus.cio anca l’àano prossimo, / te o’ prométe, continuarò a ‘ndar in zherca de paròe / vèce, òni dì, pa’a mé poesia, pa’l presepio / e pa’ i nevodhéti che mé rivarà, anca a mì, un dì…” (guardaci, e ascoltami: non c’è più posto, qui, per i presepi, / non c’è più posto per i pastori,, per le parole, per i paesi / e per il paesaggio, per la pace… però, ascoltami, mamma: / andrò a raccogliere il tuo muschio anche il prossimo anno, / te lo prometto, continuerò a raccogliere parole / vecchie, ogni giorno, per la mia poesia, per il presepe / e per i nipotini che arriveranno anche a me, un giorno…”). In questo territorio minacciato, la poesia è “un cantonét del tempo” “ un riposo, squasi, dopo ‘a fadìga / dea fabbrica, pa’ a ciòpa de pan” (“un angolino del tempo”, “un riposo, quasi, dopo la fatica / della fabbrica, per la michetta”).
Ogni libro di poesia richiede un impegno a mettersi da parte, a farsi docili, ad ascoltare. Mus.cio ci chiama a un duplice ascolto, a un duplice sforzo.
Duplice ascolto perché, al pari di un libro in lingua con testo a fronte, per essere davvero compreso necessita di una duplice lettura, perché duplice è la poesia di Franzin. Testo italiano e testo in dialetto sono indipendenti, a sé stanti, eppure complementari. Ma è il dialetto la lingua di partenza. Anche quando, come nel mio caso, non lo si conosca bene, se ne avverte la musicalità, la naturalezza, l’autenticità, la capacità di dare un nome pregno alle cose, un diminutivo, un vezzeggiativo come, almeno così mi pare, la “traduzione” italiana non riesce a fare con altrettanta efficacia, con altrettanta naturalezza, capacità di sintesi e completezza al tempo stesso, costringendo a volte a calchi, forzature, anche. Quasi che ciò che appartiene al mondo in cui questa poesia nasce e si radica profondamente non potesse essere chiamato altrimenti che in dialetto. Il dialetto è dunque ciò che mantiene in vita, che preserva la tradizione, la storia, che alimenta la memoria. Non è lingua morta, bensì humus in cui la tradizione attecchisce, si rigenera, dà frutti per il futuro, i più consistenti.
Duplice sforzo perché in chi sia stordito dal via vai delle città, dal turbinare del traffico, da un tempo sempre veloce e impietoso, entrare in questo libro provoca all’inizio un senso di déplacement, e al contempo di nostalgia, di privazione per ciò che qui dentro ancora è intatto, per quanto ferito, e un senso di dolorosa rinuncia per ciò che si sa di avere perso e tutti i giorni si perde. In Mus.ciio irrompono il silenzio dei vecchi, grida di bambini, e poi lettere ritrovate, scritte a mano, custodite in un cassetto per anni. Qui hanno piena dignità le espressioni del parlato, senza essere trasfigurate né strumentalizzate letterariamente. E ci sono voci, occhi, mani del passato fatti rivivere nel presente. Pagina dopo pagina si delineano ritratti, si ripercorrono storie, vite, ricordi. Così “’Na vècia // (vera? Forse, o magari imajinàdha / qua, co’ mì, te ‘sta Panchina / o incontràdha drio i àrdheni del ricordo / e par questo, in questo, ‘ncora pì vera) (“Una vecchia? // (vera? Forse, o magari soltanto immaginata / qui con me, in questa panchina, / o incontrata lungo gli argini della memoria / e perciò, ancor più reale).
Qui la memoria è ricchezza, nulla deve andar perduto, tutto è tenuto con cura e difeso, mentre si ripercorre a ritroso la propria storia per accorgersi che in realtà si sta proseguendo, si sta avanzando, proprio perché si sta preservando il passato quale parte integrante dell’esperienza individuale, filo, che ne interseca altri, tessendo l’ordito della Storia. Allo stesso modo, in Pare (Helvetia 2006), Franzin ripercorreva la vita di suo padre, per individuarne la continuità nella propria esperienza di genitore e in quella di chiunque decida di prendere sulle sue spalle tutto il peso e negli occhi tutta la gioia e lo stupore di dare e difendere la vita quando ciò derivi da una consapevolezza anche dolente e non da mero egoismo. Non è un mondo impossibile quello che Franzin descrive, non è un passato lontano, né un luogo circoscritto. E il dialetto è tanto più vivo, mobile, pronto a inventare altri nomi, a ri-costruire sull’esistente, piuttosto che smantellare per innalzare nuove strutture, tanto sofisticate quanto fragili. Il dialetto, come la poesia, è luogo, ovunque presente in potenza, è sede di quanto è più prezioso all’umano, l’autenticità dei rapporti. Quello incarnato dal verso di Franzin non è un tempo fuori dal tempo, è il tempo dell’anima.
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Chiara De Luca

Written by matteofantuzzi

12 gennaio 2008 at 10:08

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Franco Loi “Voci d’osteria” ed. Mondadori, 2007 di Guido Monti
 
Poesia metafisica, l’ultima raccolta di Franco Loi “Voci d’osteria”.
Metafisica che viene dalla strada polverosa di ogni giorno dalla quale come un sussulto, un borbottio, si leva la voce polifonica di tanti uomini accartocciata, dimessa o dismessa, a volte disfatta.
Dicevo poesia metafisica, perché registra letteralmente “l’oltre” di queste voci, dalla matrice terrosa sanguigna, verso l’interrogativo ultimo dell’esistere.
Si badi interrogativo quasi mai diretto ma sempre sotteso e parlante nel complesso nodo della vita che può manifestarsi sotto forme diverse, come per esempio nello scorno delle relazioni famigliari, “Io alla mia donna, voglio un sacco di bene./E’ il suo carattere che è di gran puttana…/..una volta l’ho strozzata con le mie mani,/e un’altra l’ho abbrancata per un piede/e fuor dalle finestre d’un quinto piano/l’ho fatta penzolare come un bambolotto../” o nel sesso, travestito a volte da sentimento, che viene come gesto d’impulso e oscuro e che traversa ogni uomo, santo o meno..
“Io il mistero dell’amore non l’ho mai capito…/..ne bacio una e voglio bene a un’altra../nello stringere e fingere mi prende una specie di dolore,/una puttana di pensieri, un cane che sbava,/la voglia di scappare, una troia di tormento…/..e quando non ci sono le donne, tira la rapa/nel letto e ti si spezza il sentimento../tu va a capire l’enigma che è l’uomo!/..”
E questo stesso farsi e dirsi esperienziale, che macera e parla nei corpi, è la domanda di tutte queste voci “L’ho vista nuda, mi ha tirato l’uccello./Adesso è lì morta, e l’aria sembra giocare/sul corpo di lei, tra quelle lenzuola e le mani,/ e io ci cerco tra quel muovere dell’aria,/con la voglia di niente, il mio sognare.”
La terra quindi come luogo ontologicamente interrogativo e dove intanto il buio s’espande sul fare degli uomini incapaci di ritrovarsi.
Quasi che sotto gli occhi del lettore, passassero in filigrana poesie tutte con una invisibile domanda: esistere forse per nulla? perché esistere?
“Si vede la luce nel nascere, ma poi ci perdiamo/chè nella vita non troviamo più la luce../dentro nel marcio,nel fondo del buio noi nuotiamo,/come i pesci morti, gli stronzi, le cose da buttare…”
Loi registra il battito sincopato nervoso di queste voci, la temperatura interna del loro dire, che quasi come un rantolo si spande nella melma, nel sottosuolo di ogni giorno, s’espande per darsi una più totalizzante esclamazione, l’esclamazione che canta la canzone urlata e aggrovigliata e non sentita dalla società contemporanea..
“Se parlo da solo quando cammino,/ non è che sono coglione o imbalordito,/ho qualcosa da dirvi e nessuno altro/ mi viene incontro per ascoltare lo sfogo../”
Quel “nessuno”, è lo stampo della società d’oggi, nessun ascoltatore che abbia la misura dell’ascolto..
Il poeta poi nel registrare questo dialogo convulso, collettivo, è come se prendesse nota anche del tono malandato, direi disperato della sua stessa voce testimone di questo tempo muto.
“Milano si consuma nel triossido/ e tra queste case che paiono morte agli uomini,/c’è solo il vento a muovere i panni che pallidi/ stanno alla corda come i rami ai pomi/che aspettano la pertica che li tiri giù/…/soltanto me nessuno chiama giù./….
Società avanzata, che per paradosso ha fatto scendere i suoi uomini sotto terra, realizzando così quello spazio infernale e irredimibile figurato dall’arte “Si va tra le pubblicità e i bottoni degli uomini/fra il buio degli occhi nel ventre del metro/che sono come il segno di quel che accadrà: / figli delle terra sotto l’acqua del respirare../Ah quanta notte,…/come si disgrega il mondo nel suo imbestiarsi!/….guardano gli uomini il vuoto che hanno tra le facce../Ah nero metro, caverna della storia!/Si va senza sapere chi tornerà.”
Collettività tecnologicamente evoluta, nella falsa riga però della fabbrica centenaria, che dettava e detta tutt’ora col suo tempo meccanico, un ritmo agli uomini, una cadenza di sottrazione della vita, dei suoi bioritmi.
 “…la fabbrica prima ti mangia e poi ti caga,/…/ti ruba il tempo, ti ruba la coscienza,/il fiato ti ruba, e l’aria, il sentimento../…./Ma le fabbriche le abbiamo addosso, fin dentro casa,/ fin nel letto..tra te e tua moglie../..
E’ dolente in Loi questa istantanea nitida mai offuscata del vivere d’oggi, questo immiserimento umano senza riscatto “…/…e quelli che nascono oggi non hanno speranza../..siamo figli d’un povero Milano pieno di boria,/ con la coscienza sporca e la pazienza/ di lavorare, chiavare farsi verdi come ramarri../ Ma su, non abbiate paura! Con tanta sapienza/ non siamo nemmeno capaci di pisciare, e il nostro essere/ si scioglie in un soffio d’aria, in meno di niente…/e il nostro sapere si fa carta ci cesso.”
E questa continua frenesia, col fiato corto, senza direzione senza riflessione, addirittura di corsa sino alla bara.. “Donne che hanno fretta,uomini che lavorano,/ gente che corre e non sa mai dove andare../Il prima e il dopo, amici, non si può mai dirlo/ché noi balordi siamo dentro il lampo del vivere/ e il troppo darsi da fare è figlio dell’ignoranza,/una corsa alla bara nell’affanno del morire.”
E questo aprire il petto dell’uomo figlio delle mai sepolte “magnifiche sorti e progressive”, questo suo gonfiarsi furioso che lo porta ad essere il misuratore del perimetro umano..
Dice ancora Loi: “Se l’uomo misura il mondo, chi misura/il modo di misurare dell’uomo e la misura?/.. ché noi nel misurare falsiamo il metro/ ché ci piace comunque farci belli nel giudicare../E allora lasciamo fare ai grandi sarti/ ché anche dio ha sempre tanto da fare..” 
E forse l’uomo non solo non può misurare ma non può essere misurato per il suo stato di precarietà e finitezza dentro la vita terrena “Carletto, vieni qua..vieni qua che ti misuro..”/ “misurare cosa, eh?..misurare cosa?”/ “Ti misuro l’ombra della cassa../che tanto nel corpo non c’è niente da misurare..”
E ancora i figli dei figli di questo sbigottito andare senza direzione, che assume il verso a volte di una violenza occulta “Ci sono giovani che tu vedi già morti../ adesso ti vengono addosso anche in metro../loro, i padroni del tram, la razza nera,/ che fanno soldi con gli occhi e ti derubano/ perfino l’anima nel tuo letto da sera..”
Violenza dicevo e facile guadagno, facile divertimento, in cui il senso del sacrificio, si occulta nel lampo del godere dell’attimo “Te la ricordi, Gino, la fatica/ i giorni del carneval per trovare un centesimo?/Oggi è uno spasso anche a essere mocciosi ./ Ma guardali lì, questi stronzi, han tanta figa/…./Non c’è più religione!troppa abbondanza e confusione!/…
Questa lacerazione, frantumazione dell’orizzonte umano, si fa poi più evidente proprio quando il poeta per contrasto, gli sovrappone nitide diapositive di paesaggi marini, “Nel gioco io vorrei come un ciuffolotto/ perdermi nell’aria, essere foglia nel volare,/farmi grandi risate e andare nell’acqua nudo/ e l’onda è ancora aria nel nuotare/ e non siamo più noi, ma corre l’acqua nel vento/ e l’aria si fa noi nel suo fiatare”, o di luoghi anche cittadini ma traversati per un attimo di natura, come la pioggia che informa di lentezza fluviale i viali d’una Milano altra “Come piove! Come fresca la città nel piovere!/ quel verde del camion, l’ombrello che cammina,/ la luce del tram che scivola a stento/ e io che sogno il fumo d’un amore lontano/…e c’è la luna e tanti uccelli nel cielo,/ e un piovere che nel pensiero vien su dal mare,/ un ‘onda che torna e che lascia il fiele/ d’una Milano che dorme senza gente.”
Assistiamo qui ad una parola che si quieta, si distende si fa preghiera naturale.
A volte invece è capovolta nei toni interlocutori ed ironici verso un loro impersonale “Come ce l’hanno imbrattata, Dio, questa nostra vita,/ quando sarebbe così bello guardare nevicare/e guardar piovere…/ e correre le strade e con gli amici pisciare..”
Il poeta è queste voci, che si fanno protesta drammatica nel loro dire di bestemmia, “Che vita sciatta! tra le rondini che si beccano/…Ah madre avara,/che mi hai messo al mondo senza pensarci!” o è la voce essenziale del panettiere, che dalla saggezza d’un mestiere antico dice “…/…noi siamo poeti….piccoli e forestieri../senza padre né madre…siamo brutta gente.. /ai quali il giorno è come la notte nel buco del prestinaio…/…” nasce insomma da tutte queste presenze del mondo e nel mondo e poi ne fa summa nella sua pagina, per un dire unico e insieme molteplice.
Franco Loi credo  ci suggerisca di percorrere la strada del vissuto, quella più fonda, degli uomini drammaticamente inascoltati perché ultimi di una catena, occorre insomma per intenderla questa vita rigirarla da sotto perché “non basta infilare belle parole,/occorre segnarle con l’olio, e, sacramento,/con l’unghia della vita, e con le noci amare/ che abbiamo cagato fuori dal sangue del sentimento.”
Gli spunti di riflessione esistenziale si intrecciano, si parlano, e Loi da esploratore di quella sottilissima dimensione che terrena svola verso qualcosa d’altro, dà forma a questi interrogativi, li accende come quando ci parla in una poesia, del sonno umano visto nella sua dimensione doppia di riposo ma anche di abbandono e perdita di quel senso razionale che ci fa essere coscienti alla vita “…/gli occhi chiusi, un peso d’ombra scura/ appena sopra il naso, un dimenticarsi la vita../ sta li quieto, poi arriva all’improvviso/ e tu senza accorgertene ci sei già dentro../…non c’è nemmeno il tempo di dire e di sorridere,/ già l’aria la respiriamo senza più vedere.”
Questo respirare senza più vedere, è lo stato di pre-morte, è la visione anticipata di quell’esserci finale d’ognuno.
Il tratto poi che imprime nelle poesie finali del libro, all’uomo- padre-vecchio, è quello di un corpo traversato e consunto dalla vita, dai suoi colpi ed è come se in fondo, nel fondo di quella esistenza, fosse passato senza traccia con la mente fissa a un pensiero o a qualcosa…
“C’è un giornale tra le mani bianche di mio padre/ e lui sorride come nel pensarsi../..e gli occhi guardano qualcosa nel passare del tempo../..sta lì nel vuoto, è lì come nel ventre/d’un suo soffiare dell’aria e dimenticanze…/..un fiato nella pazienza di aspettare,/ una vita che sembra spersa nella mente.
L’uomo-padre visto poi nell’ultimo momento dopo la morte, assume una sembianza in-figurabile come in-figurabile si prefigura la possibilità oramai svanita, di capire la dimensione paterna nel farsi della sua storia sociale ed individuale “Gli occhi sono sciocchi nell’aria dietro la morte,/la mano di palta su un lenzuolo tutto bianco/ mio padre guarda il sole come fosse notte../…Dov’è? cos’è? mio padre? Cosa se n’è andato?/cosa rimarrà di lui nel venire del verde/…sono qui a guardare uno sconosciuto fatto niente/ e adagio si perde del padre la mia eterna/ fatica di capire l’aria il suo tempo.

Quel “adagio” è terribile piolo che batte e s’incunea nel vero delle relazioni umane destinate a disunirsi, come lentamente, nel chiaro volere-destino umano.

Written by matteofantuzzi

6 gennaio 2008 at 14:01

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