Archive for agosto 2009
L’epica di Elio Pagliarani come resistenza alla dispersione radicale di Vincenzo Frungillo
Scriveva il giovane Bachtin in L’autore e l’eroe: «Le tre sfere della cultura umana –scienza, arte e vita- trovano unità soltanto nella persona che le rende partecipi della propria unità. […] Quando l’uomo è nell’arte, egli è fuori della vita, e viceversa. Tra esse non c’è unità e reciproca compenetrazione interiore nell’unità della persona. Che cosa allora garantisce il legame interiore degli elementi della persona? Soltanto l’unità della responsabilità.» Nessuna citazione è ai miei occhi più calzante per descrivere l’esperienza poetica di Elio Pagliarani. Rileggendo la sua opera ho notato che la responsabilità verso il proprio tempo è la costante del suo impegno letterario. C’è da questo punto di vista una precisa dichiarazione di poetica nel famoso finale de La ragazza Carla. Nella prima strofa del coro si legge: Quanto di morte noi circonda e quanto/ tocca mutarne in vita per esistere/ è diamante sul vetro, svolgimento/ concreto d’uomo in storia che resiste/ solo vivo scarnendosi al suo tempo/ quando ristagna il ritmo e quando investe/ lo stesso corpo umano a mutamento.
Tenendo presente questi sette versi, mi piacerebbe sottolineare quello che per me è uno snodo importante dell’opera del poeta emiliano. Dopo il finale corifeo de La ragazza Carla, avviene una mutazione radicale nello sguardo di Pagliarani. «Le cose stanno cambiando, sono cambiate. Non nel senso generico che si dà a questa frase. Le cose stanno scomparendo. Quelle che arrivano, o arriveranno, ho paura che non potrò più sentirle. Ho paura che potrò solo usarle» dice il protagonista del romanzo Atlante Occidentale di Del Giudice, parlando con un giovane fisico impegnato in esperimenti sull’accelerazione della materia. Ed è come se Pagliarani avesse avvertito la stessa mutazione epocale dopo il ’62, e avesse deciso di non sottrarsi alla sfida.
Tutta l’epica didascalica successiva al poema sull’impiegata dell’Olivetti è un’interrogazione sofferta sul perché quest’eroina non riesca a diventare ideale, non riesca a trattenere, a conservare intorno a sé lo spazio della rappresentazione (Esercizi platonici, del 1985, mi sembra essere ancora un’interrogazione teoretica su questo punto). Il coro finale del poema del ’62, quindi, si dilata all’infinito e le forze della Storia diventano il centro stesso della scena, diventano esse stesse lo spazio e il protagonista della rappresentazione. Il contesto storico-sociale invade il corpo del personaggio Carla e lo smembra. Il finale de La ragazza Carla, da questo punto di vista, ha la stessa funzione che aveva il coro della tragedia greca: irrompe sulla scena, toglie la voce ai personaggi e far parlare l’oggettività della Storia.
Da qui ha inizio l’avventura testuale dell’epica didascalica di Lezioni di Fisica e Fecaloro; testo innovativo e profetico che fa del corpo nero e della legge sull’indeterminazione in fisica (vedi IV lettera o egloga di Lezioni di fisica) la metafora madre di quegli anni e degli anni a venire. Adesso è l’indeterminazione il paradigma sovrano così come il corpo nero rappresenta l’impossibilità di raffigurare il personaggio simbolo della nuova era. Restando all’interno di un linguaggio scientifico si potrebbe dire allora che se un corpo è “il risultato di un equilibrio tra la forza di conservazione e quella di dispersione” (così Kant riprendendo Leibniz in commento alla fisica di Newton), i versi di Pagliarani dicono il passaggio al paradigma della pura dispersione. In questo scenario il poeta non può che accettare l’”indistinto”, ma non si abbandona ad esso con nichilistica rassegnazione.
Il narratore in versi diventa la cassa di risonanza delle mutazioni epocali che coincidono con le rivoluzioni scientifico-tecnologiche del suo tempo. Se la tradizione non è più l’insieme di codici linguistici che garantiscono comunità e centralità all’uomo, se lo stesso “io narrante” vacilla, in quanto strumento di comprensione del mondo, di certo non decade l’essenza storica del narratore-corpo, la traumatica somatizzazione del suo tempo. Di fronte alla scomparsa del corpo ideale e del suo spazio il poeta oppone la forza della resistenza. Adesso non c’è più un personaggio che rappresenti un’epoca, adesso ci sono le sole forze che si combattano avendo perso l’equilibrio iniziale (è Deleuze che dirà che un “corpo è sempre il risultato di uno scontro di forze”). Questo, mi sembra, può voler intendere il poeta quando nella V egloga di Lezioni di fisica parla della “grammatica epica d’Achille”: scarnificare il racconto eroico per rimettere in campo il thymos, il respiro, lo slancio che animava i personaggi dei poemi antichi; anche se adesso il nemico da combattere è l’”indistinto”. In questo scontro il solo nucleo che si può rintracciare è la “retorica dei recitativi”, il punto d’impatto tra il fuori e il dentro, il fiato del poeta che tiene insieme il testo e lo spazio.
Intervista a Romano Luperini
Su Fabio Pusterla, per la Radio Svizzera Italiana.
Fabio Pusterla, Bocksten, Marcos y Marcos 1989
Se potessi scegliere un gesto, un luogo e un’ora,
l’ora sarebbe una sera d’aria tesa
e il luogo sarebbe un luogo come tanti:
una baracca in curva,
una pausa appena accennata di qualcosa,
calda bassa e fumosa,
dove seduto a un tavolo, toccando
una spalla, una mano o un bicchiere,
prenderei tempo prima di alzarmi
a seguire qualche sconosciuto fuori.
Il più grande poeta svizzero contemporaneo in lingua italiana e il suo testo più affascinante, formalmente pulito ed allo stesso tempo efficace, felice nel proprio impatto visivo. Poche pennellate per descrivere in maniera esaustiva una terra “sospesa” e le persone che la popolano: un uomo probabilmente ucciso nel medioevo riemerge dalla terra in una torbiera svedese. Il poeta si interroga sul senso del volere afferrare e comprendere il passato sebbene esso sia inesorabilmente accaduto. Lo schema che si ritrova nel lavoro di Pusterla e nello specifico di questo libro è quello dell’utilizzo della storia per raccontare le vicende contemporanee, l’epica che scorre assieme agli inserti prosastici e che caratterizza tutta una generazione della Poesia in lingua italiana che è quella che va tra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta e che comprende ad esempio un altro grande poeta come Antonio Riccardi. Il poeta diventa così non solo il protagonista della propria storia, della propria personale vicenda come è accaduto tante volte nella Poesia rovinando anche in un certo senso il rapporto di fiducia intrapreso coi lettori della Poesia sempre più disorientati dai personalismi che la letteratura italiana sta proponendo, ma in qualche modo ritorna al proprio ruolo di veicolo, di tramite: ritorna ad essere reale racconto.
E se i migliori esempi dell’ultima Poesia, delle nuove generazioni, stanno andando in quella direzione è proprio grazie ad opere come questa dove tutto ha un nome, tutto è contatto fisico con la natura, è acqua, è terra, è nebbia e in mezzo sta l’uomo finalmente inserito all’interno della natura, non più corpo estraneo, non più “fuori scala”: il rischio che l’uomo come il Poeta escano da un livello normale di percezione di loro stessi è oggi all’ordine del giorno, tanti considerano la Poesia come qualcosa di aulico, di inavvicinabile, e invece il lavoro di Pusterla va nella direzione opposta facendo materialmente uscire il proprio protagonista dalla torbiera per aprirlo al mondo, perché << Se il senso è questo allora tutto ha un senso, / lo dice l’acqua che scivola tranquilla / e i rami rotti che trascina il fiume / e il fango in cui si macerano i detriti. / Se il senso è questo ogni dolore è vano, / lo strazio vuoto ritorna alla terra. // Se il senso è questo la vita è accettabile. >>
Sicuramente in tutto questo ha contributo l’attività di traduzione da parte di Pusterla dell’opera di Philippe Jaccottet universalmente riconosciuto come il maggiore poeta svizzero contemporaneo, si veda anche in questo senso il libro “Il poeta ammutolito. Letteratura senza io. Philippe Jaccottet e Fabio Pusterla”, scritto da Mattia Cavadini e pubblicato anch’esso in Italia dal meritorio editore Marcos y Marcos che tante innovazioni ha portato anche nel campo della narrativa italiana: questo passaggio tra Jaccottet e Pusterla è sicuramente una delle chiavi di lettura di questo autore e chiaramente anche di questo libro perché alla fine molta della Poesia Svizzera contemporanea universalmente riconosciuta e percepita anche fuori dai propri confini va in questa direzione, ha una linea e precisa e a mio avviso anche molto concreta e al tempo stesso fertile proprio per l’impatto che ha avuto e ancora oggi ha negli scrittori delle generazioni successive a quelle di Pusterla e anche nell’impatto coi lettori, problematica sempre viva per quello che riguarda la Poesia. La fortuna anche editoriale di questo libro gira proprio tutta attorno alla propria possibilità di entrare dentro l’anima delle persone.
L’uomo protagonista di Bocksten che riemerge dal nulla e inizia a cercare, a riprendere contatto con tutto quello che è stato il proprio passato e in fondo la propria storia ci assomiglia terribilmente nella nostra quotidiana ricerca, nel nostro costante tentativo di volere comprendere le cose e in un certo modo la natura umana all’interno di un territorio selvaggio e franoso, estremamente labile come sono labili ad esempio oggi le città, le metropoli e i rapporti umani che si creano all’interno di esse.
È una persona del XIV secolo probabilmente morta in circostanze tragiche a raccontarci come siamo noi oggi, e questa è la forza della Poesia di Fabio Pusterla, un’esperienza davvero cruciale all’interno della Poesia Italiana Contemporanea e uno di quei pochi testi che permettono al Novecento Italiano di evolvere e abbandonare definitivamente il Postmoderno.