UniversoPoesia

Da Matteo Fantuzzi quanto di buono offre la poesia italiana contemporanea. Forse.

Archive for novembre 2005

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Cartoline dalla Svezia (2 di 2). Imparare dall’Estonia.

00tal è una rivista svedese molto attiva, organizza il festival della poesia di Stoccolma ecc. L’ultimo numero 17/18 era dedicato alla giovane poesia europea. 30 poeti da 19 nazioni, testi, saggi ma anche un riferimento sociologico alla condizione della nuova poesia. In tutto questo che ruolo all’Italia ? Nessuno. Non esistiamo: si parla di poesia slovena, ecc. ecc. ma noi non esistiamo come da tempo ribadisco accade in Europa, la poesia italiana (soprattutto la giovane) non se la fila nessuno. O quasi. Perchè ad esempio PIW (la fanno a Rotterdam) ha una sezione dedicata alla poesia italiana, molto eterogenea, da Rondoni, a Inglese a Flavio Santi. Ma rimane il fatto che molti dati spesso e troppo spesso confermano questa mia impressione che bene è avvalorata dall’intervista di 00tal a un poeta estone. Egli racconta che è direttamente lo Stato a pubblicare i nuovi autori (beh, in tal senso forse il nostro fallirebbe…), a promuoverli, e che al di là delle differenze stilistiche e sostanziali, i reading e i confronti sono continui e sono nel rispetto reciproco. Non è che questo aiuterebbe anche noi ? Non è che sia questo stato di aggressione continua a fare schifo alla gente dentro e fuori lo stivale ? Impariamo dall’Estonia. State bene.

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Io so (Nuovi Argomenti 32)

La notizia è già pubblica sul blog di Rossano Astremo e quindi non mi sento in colpa di anticipazioni particolari. Da martedì 29 novembre sarà in edicola il numero 32 di Nuovi Argomenti dedicato a PPP e che conterrà 7 mie poesie inedite e la cosa insomma (scusate) un poco mi commuove. Troppa grazia, sinceramente…

Written by matteofantuzzi

27 novembre 2005 at 09:29

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FACCIAMO UN PATTO? (per un pubblico della poesia non privato ma pubblico) di Luigi Nacci.

Partirò da un’affermazione di Cesare Viviani, poeta lontano dal mio personale gusto e modo di concepire la poesia, ma che qui vorrei “usare” per l’incipit del mio intervento. Viviani, in La voce inimitabile. Poesia e poetica del secondo Novecento (il melangolo, 2004), scrive: «Ora il grande errore e pericolo, per chi scrive poesie, è di credere che la parola del potere comunicativo possa avvantaggiare la parola poetica». L’autore poi si (s)lancia contro il cattivo esempio di Castelporziano (a cui ha partecipato) e tutti i suoi “discendenti”: spettacoli, manifestazioni, performance e chi più ne ha più ne metta. «Sempre meno relazioni approfondite con i testi, sempre più relazioni con gli autori, tra gli autori», con il pericolo del dilagare di una tendenza: «quella di valutare l’opera poetica attraverso il rapporto personale con l’autore, essendo assegnati i valori e i disvalori sulla base delle corrispondenze affettive e quindi, diciamolo pure, delle simpatie e delle antipatie». Viviani pone due questioni interessanti: la prima è quella della funzione comunicativa della poesia; la seconda invece deriva direttamente dalla prima, quindi per trattarla dovremo prima soffermarci sulla precedente. Comunicare significa mettere in comune. Poetare significa inventare, comporre, creare (fare). Ma per chi si crea, per se stessi? Il creatore genera per qualcun altro, o prima di tutto genera l’Altro. Krònos è “creatore”, Cerere è “colei che produce”: il primo divora sì tutti i propri figli ma infine li risputa sulla terra; divorata e poi vomitata da Krònos, Demetra-Cerere è (come il padre) la divinità del grano, colei grazie alla quale la terra dà alla luce i propri frutti. E per chi li dà, i frutti? Dio disse (Genesi, 1, 29-30): «Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra e ogni albero in cui è il frutto, che produce seme: saranno il vostro cibo. A tutte le bestie selvatiche , a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli esseri che strisciano sulla terra e nei quali è alito di vita, io do in cibo ogni erba verde». In ogni mitologia/religione il creatore/dio crea l’Altro e allo stesso tempo assegna a questo la facoltà di creare l’Altro: la catena che si stabilisce, sebbene natural-mente dotata di anelli che tengono poco o che non tengono, si fonda sul passaggio da un anello al successivo: il donatore da una parte, colui che riceve il dono dall’altra. Il poeta, cioè il creatore, è donatore, ovvero, richiamando Propp, il mentore: chi concede all’eroe l’escamotage per salvarsi o sconfiggere il nemico. Tuttavia il mentore non con-segna il dono, la spada, il consiglio, senza che prima l’eroe non abbia fatto qualcosa per meritarselo, ad esempio offrendo soccorso a qualcuno in difficoltà. Il meccanismo del dono, ce lo insegna Mauss, vincola, al di là di ogni retorica della generosità, il ricevente al donatore obbligandolo alla reciprocità. Allo stesso modo il poeta: egli non fa dono a se stesso della sua creazione ma all’Altro. In cambio egli chiede (implicitamente) che il ricevente si svesta delle sue convenzioni linguistiche/ideologiche/morali per entrare nell’impasto del suo mondo-lingua. Ciò non basta però: per essere davvero mentore (e quindi donatore, e quindi creatore, e quindi: poeta) si deve andare incontro a colui che riceverà il dono – bisogna stabilire un patto. In narrativa si parla di “patto” nel momento in cui il lettore, pur sapendo che la storia raccontata è fittizia, si comporta come se fosse vera (la lettura “disponibile”). Se così non fosse il lettore non proverebbe tutte quelle emozioni e quelle sensazioni che lo scrittore si è prefisso di suscitare. Ora, perché non si può parlare di patto anche in poesia? D’altronde se il narratore è un «bugiardo autorizzato» (Segre), il poeta che cos’è? Il poeta tende alla verità, ma questa tensione non è già verità, bensì verosimiglianza: la discesa nel sé, negli inferi, nel mondo, la risalita a riveder le stelle è cammino che può esser fatto per amor del vero, ma il racconto di questo cammino, seppure in versi, seppure partorito con il contagocce, con parole scavate nell’abisso, nel naufragio, è in fondo sempre un racconto, re-ad-conto, andare verso la ripetizione del riferire, e nella ripetizione, si sa, si annida la differenza, lo scarto che ci allontana (o ci avvicina, è uguale) al punto nodale, l’unicum, che potremmo chiamare anche verità. Chi, scrivendo versi, rifiuta questo patto, per ergersi a (pro)cacciatore di verità, oppure dispensatore di verità (anche il rifiuto – debole, minimalista – della verità, di ogni sistematizzazione, di ogni metafisica, è affermazione di verità) è un versificatore oppure, in questi tempi di lacune metrico-retoriche, un inventore di frasi che vanno a capo. Il poeta riporta parzialmente, con versi/giri di danza (stando all’etimo), frammenti del proprio mondo e chiede al lettore/ascoltatore di far finta che quel mondo sia vero e che quel modo di cantare sia proprio di quel mondo, e gli chiede anche (cosa che non può chiedere il narratore) di lasciarsi sedurre dai suoni, gli chiede di far finta che ad ogni fonema corrisponda un passo di danza, che ad ogni parola corrisponda un ballerino, una pista da ballo, ad ogni poesia una giornata passata danzando. Gli chiede anche di allenare il senso dell’udito, affinché percepisca il ritmo e contemporanemente non si perdano le parole sussurrate all’orecchio dagli altri danzatori. Tutto bello – tutto verosimigliante. Come può – ritorndando al tema iniziale – la parola poetica non possedere il potere comunicativo? Se comunicare vuol dire mettere in comune, tanto più sarà grande il potere comunicativo, tanto più forte sarà la comunione, e di conseguenza tanto più inebriante, avvolgente, sarà la danza in cui è preso il lettore/ascoltatore (e i ballerini che si alternano chi li ha creati se non il poeta? Essi sono la manifestazione più riuscita del patto, della comunione). Far equivalere l’alta comunicatività della poesia con la sua banalizzazione, la sua facile ricerca delle masse (Prévert fu uno degli autori più attaccati in Europa, nel secolo scorso. Quanta lealtà in quelle critiche, quanta invidia?) è un grave errore. L’Est Europa, il Sudamerica (due soli esempi) hanno conosciuto e conoscono ancora larghe diffusioni nella vendita di libri di poesia: se dovessimo giudicare con il solo principio esposto sopra, dovremmo cestinare tutto quello che lì è stato scritto. Invece credo che sarebbe proficuo un ri-pensamento, un interrogativo posto tenendo a mente il “patto”. Il poeta dovrebbe chiedersi: a chi sto facendo questo dono? Il mondo che sto donando avrà abbastanza musica, abbastanza ballerini, abbastanza piste da ballo, avrà i tempi, i battiti giusti? Le parole sussurrate all’orecchio si sentiranno o saranno coperte dalla musica? Quando smetterà di suonare l’orchestra? Torneranno a ballare quelli che ho invitato, o si stuferanno dopo la prima volta? Che cosa resterà di tutti quei passi, quegli sguardi, che cosa resterà di me, di noi? Il poeta deve porsi queste domande. Se non lo fa, se la musica suona solo per lui, se è lui a ballare e nessun altro, allora non ha donato niente, non ha creato, cioè: non è un poeta. Castelporziano/ ParcoPoesia/ RomaPoesia/ OctoberPoetryFestivalMonfalcone, etc. etc., non hanno in sé il germe della disfatta. I luoghi sono fatti da chi li abita, prima di tutto. Se a Castelporziano, a Riccione, a Roma, a Monfalcone, etc. etc., andassero solo i poeti che mettono in pratica quel “patto” (ecco il seme per una futura discussione: chi pratica il patto?), forse gli esiti sarebbero differenti. Soprattutto sarebbe differente il rapporto con il pubblico, giacché il patto presuppone la ricerca dell’Altro, non l’esibizione di sé. Anche il secondo argomento di discussione posto all’inizio, in un’ottica del genere, sarebbe risolto con più facilità. Laddove non è più solo la comunità di (cosiddetti, presunti, autoproclamatisi)poeti o (vagamente militanti)critici a selezionare e giudicare, ma anche il pubblico di lettori/ascoltatori, lì vi è una maggiore democraticità nella scelta. O il pubblico (l’opposto di privato, ciò che appartiene a tutti) non conta niente?

Written by matteofantuzzi

19 novembre 2005 at 13:11

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Parola plurale di Grazia Casagrande.

Questa antologia di poeti del secondo Novecento edita da Sossella rappresenta uno dei più ampi e autorevoli testi di riferimento per chiunque voglia avvicinarsi alle espressioni poetiche a noi più vicine. Due degli otto curatori, Andrea Cortellessa e Giancarlo Alfano, raccontano con quale logica hanno operato la selezione e quale finalità hanno perseguito.

Parola plurale è stata curata da otto diversi critici. Innanzitutto come avete compiuto la selezione?

Giancarlo Alfano. La scelta è stata collegiale, nel senso che siamo partiti da una rosa di nomi noti a tutti e che tutti credevamo essere centrali in questi ultimi trent’anni (erano venticinque in partenza perché abbiamo iniziato nel 2000), e poi ciascuno di noi ha portato nomi ed esperienze che riteneva potessero entrare per comporre un disegno più complesso. Dopo circa un anno di discussioni uscì una prima rosa a cui seguirono vari lavori di verifica. E, come credo sia chiaro scorrendo l’indice, i ritocchi hanno riguardato i giovani, tutti quelli nati dopo il ’70, per fare due nomi Elisa Biagini e Florinda Fusco: voci molto caratterizzanti e piuttosto importanti, inserite procedendo nel confronto.

Andrea Cortellessa. C’è in tutte le operazioni antologiche una specie di doppio versante. Da una parte l’antologista deve rispettare quelli che sono i canoni sedimentati, condivisi: se faccio un’antologia del primo Novecento senza Ungaretti, posso giustificare la mia antipatia per questo poeta in tutti i modi, ma compio un’operazione che in sede antologica non è legittima: togliendo Ungaretti non capirò nulla della poesia successiva, che si è in gran parte evoluta a partire da lui sia accettandolo sia, e tanto più, rifiutandolo. Così come non si può tralasciare D’Annunzio. Sono autori che possono piacere o meno, ma che hanno una funzione storica imprescindibile, quindi qualsiasi antologia che ometta un nome di questo genere si consegna a un ruolo militante e di tendenza e questa non era la nostra intenzione. Fatte le debite proporzioni, la stessa cosa abbiamo pensato di fare anche per quanto riguarda il repertorio che va dagli anni Settanta a oggi: una serie di autori, che possono anche piacerci meno, ma che in qualche misura hanno condizionato l’evoluzione del linguaggio poetico italiano in positivo o in negativo, influenzando altri autori oppure incoraggiandoli a fare scelte diametralmente opposte alle loro, sono stati considerati imprescindibili. Faccio un esempio pratico, Giuseppe Conte: è un autore che nessuno degli antologisti ha caro, anzi direi che tutti lo hanno profondamente in disdoro, però da un punto di vista storico la sua valenza è imprescindibile, la sua interpretazione del ruolo del poeta, del linguaggio poetico stesso, il suo precoce postmodernismo, che poi di questo si tratta, sono passaggi inaggirabili; può essere criticato, e io mi sono preso la briga di farlo nell’introdurre i suoi testi, ma non si può omettere la sua figura.

Avete una data di avvio: perché il 1975?

Giancarlo Alfano. Nel 1975 succedono una serie di cose importanti: da una parte, una generazione pregressa, quella di Montale tra i nonni e di Pasolini tra i padri, arriva fatalmente alla sua conclusione con il Nobel a Montale e la morte tragica di Pasolini: è una stagione che in qualche modo finisce. E poi al contrario nel 1975, data che tutti noi abbiamo concordato, emergono altri testi, in particolare con l’antologia Il pubblico della poesia esce allo scoperto una nuova generazione. O perché esordiscono poeti come Michelangelo Coviello, oppure perché autori come Giuseppe Conte trovano espressione matura. Il ’75, come spesso capita, è una data arbitraria come avviene sempre quando si deve fare una periodizzazione, però consente di vedere la conclusione di una stagione poetica e l’avvio di una diversa.

Come siete riusciti a lavorare in così tanti?

Giancarlo Alfano. La spinta all’inizio è venuta da Cortellessa che ci ha radunati; per circa sei, sette mesi ci siamo confrontati per email, poi abbiamo fatto un primo grande incontro a Roma dall’editore che ci ha ospitati e in quella sede è stata scelta la prima rosa di nomi di cui parlavo prima; dopodiché il lavoro è stato piuttosto intenso perché ciascuno di noi curava la voce di un poeta. Nel mio caso preparai per prima quella di Gabriele Frasca, la spedii a tutti e ricevetti molte segnalazioni anche negative. Quella prima voce servì perché fu la prima in assoluto e ci aiutò a chiarire come volevamo uscissero i cappelli introduttivi, quanto dovesse essere ampia l’antologizzazione e così via. Per sintetizzare: da una parte il confronto collegiale dall’altra il rischio personale, cioè ogni volta che uno di noi scriveva una voce o la proponeva, si attendeva poi il ritorno della correzione delle bozze e le affermazioni critiche più pungenti.

Siete stati severi gli uni nei confronti degli altri?

Giancarlo Alfano. Siamo stati sempre molto attenti, perché l’idea era ed è che, pur rimanendo ciascuno responsabile della sua voce in quanto firmatario, il progetto sia collettivo e dunque che sia necessaria omogeneità non certo nella scrittura ma nel modo di procedere. Questo per noi era importante e dunque ci sono stati momenti di confronto serio: severo non direi perché non ce n’è stato bisogno, tranne che con i ritardatari. Le prime voci sono servite a tutti quanti per capire che cosa volevamo fare.

L’elettronica vi è stata preziosa.

Giancarlo Alfano. Sicuramente. E posso aggiungere fondamentale perché i siti di poesia, le riviste elettroniche e le stesse forme di confronto sulla lettura dei testi, effettivamente aiutano – dato che le scelte dei grandi editori sono inevitabilmente lunghe ed è difficile essere pubblicati – a rendersi conto del lavoro mentre è realmente in corso. Quando leggiamo il libro di un poeta già “confezionato”, in qualche modo è chiuso: con internet si ha un vantaggio vero, culturale e letterario, perché ci mostra il cantiere mentre è in svolgimento.

E la seconda parte dell’antologia?

Andrea Cortellessa. La parte successiva – che va dall’inizio degli anni Ottanta, quando il postmodernismo diventa una pratica diffusa e comune e quindi dall’esordio di Magrelli e di Valduga, e giunge fino a oggi – non permette di avere valori condivisi. Questo per una serie di motivi storici che sono spiegati nella premessa dell’antologia, motivi oggettivi, nel senso che dopo l’antologia di Mengaldo che si fermava immediatamente prima, non ce n’è stata nessuna in grado di comporre un canone, cioè di fare accettare una serie di autori come imprescindibili. Ovviamente le scelte sono opinabili, e questo è inevitabile, per cui il discorso non è tanto relativo alle esclusioni, com’è facile fare in casi come questo, ma piuttosto alle inclusioni: cioè bisognava ogni volta motivare criticamente la presenza o meno di un autore. Questo è stato fatto attraverso letture incrociate, riunioni e posta elettronica (un libro del genere senza la posta elettronica sarebbe stato impossibile da realizzare). Ci siamo sottoposti l’un l’altro una serie di autori e di libri, e anche singole poesie, fermandoci a volte fino alla singola parola: cioè una parola può essere un clic, come diceva Spitzer che illumina la personalità di un autore in negativo e in positivo attraverso una serie di testi (come diceva Sanguineti “ogni testo è un test”) e consente di accendere o meno una lampadina. Ovviamente molte lampadine si sono accese e molte si sono spente: ci sono autori che inizialmente avevamo pensato fosse necessario antologizzare e che poi abbiamo escluso, questo per dire che ci sono anche altri autori non presenti nel volume del livello di quelli prescelti. Recentemente antologie, collane editoriali e saggi sono stati dedicati ai nati negli anni Settanta, l’ultima generazione affacciatasi al proscenio, che anche noi abbiamo pensato fosse giusto “promuovere”. Tuttavia questo finisce per sacrificare un’altra generazione, quella della prima metà degli anni Sessanta, che ha autori molto validi. Ad esempio Vito Bonito, meno noto ma di sicuro importante e anche già esemplare per i più giovani.

È anche il tentativo di creare un canone?

Giancarlo Alfano. Direi che è difficile stabilire un canone. Probabilmente altri lo fanno, ma un’antologia di 1200 pagine temo non possa proporne uno. È ovvio che anche noi presentiamo delle scelte, beninteso non pensiamo di essere ecumenici o fintamente “buonisti”. Tuttavia, direi che se c’è una cosa che può aiutare il lettore che voglia trascorrere un po’ di tempo su questa nostra antologia, forse la cosa che può trovare piuttosto che un “canone della poesia contemporanea” sarà la “poesia contemporanea”, cioè esattamente ciò che sta succedendo. Una storia trentennale è una storia scritta nel presente.

Molte antologie poetiche in quest’ultimo periodo: perché?

Giancarlo Alfano. Nel 2004 sono uscite due antologie di poesia italiana in Francia: vuol dire probabilmente che il livello (molteplice nelle sue espressioni ma uniformemente medio-alto nelle sue produzioni) della poesia italiana è effettivamente riconosciuto. Non saprei fare confronti con altre realtà, ma ho visto antologie di poesia spagnola e francese con risultati molto più omogenei, invece l’Italia in questi ultimi trent’anni si trova a rappresentare cose, forme e vie espressive diverse, ma tutte notevoli. Dunque, poiché i produttori di poesia sono anche numerosi, il modo e la forma più comoda per far conoscere la varietà di questi prodotti è quello dell’antologia. Poi queste divergono, ognuna ha una sua storia e si colloca nel panorama storico-culturale con un progetto proprio. Per fare un esempio noto a tutti i lettori, la bellissima antologia di Testa (Dopo la lirica) è profondamente diversa dalla nostra, in parte per gli autori selezionati, in parte per l’opzione forte di ribadire una specificità nella poesia italiana: il fatto che venga dopo la fine della grande forma lirica. Noi per esempio non siamo d’accordo con Testa ma ammiriamo profondamente il suo lavoro. Probabilmente dalla nostra antologia si vede che una tradizione lirica è ancora molto forte, una poesia dell’io, un io che esprime forme dell’essere attraverso la soggettività.

Andrea Cortellessa. Ho avuto l’idea di questo libro nel 1998 e dal 2001 abbiamo lavorato continuativamente, quindi è un progetto che arriva alle stampe per ultimo rispetto ad altri, ma che è stato concepito contemporaneamente se non prima. C’è stata una soglia secolare che in tutti i campi ha incoraggiato dei bilanci, delle considerazioni storiche sull’ultima parte del Novecento e, nel nostro ambito, c’è stato anche un vuoto di attenzione da parte della critica, come dicevamo nella premessa, molto grave, per cui dopo il ’78, dopo la poesia di Mengaldo, non sembrava esserci più nulla.

È stato necessario insomma colmare questo vuoto.

Andrea Cortellessa. Da una parte si era avvertita questa grave lacuna di antologie autorevoli e dall’altra vi sono stati motivi concomitanti e non solo casuali come la fine del Millennio: ci sono state modificazioni linguistiche e prima ancora di “aura” della poesia. Giovanni Raboni, in un articolo che non è potuto entrare nella “Poesia che si fa” perché riguarda fenomeni recentissimi, nel 2000, recensendo un paio di antologie di giovani poeti, aveva detto che erano quelli i primi veri poeti postmoderni che accolgono o rifiutano i modelli novecenteschi, e in particolare del secondo Novecento, senza quella carica ideologica e militante che la sua generazione (ma anche quella successiva) aveva fortemente applicato in questo rifiuto. Se uno si ispirava a Sanguineti, a Zanzotto o a Fortini questo comportava una serie di scelte ideologiche che producevano un linguaggio coerente ad esse e leggibile dall’esterno. È accaduto che questi steccati, provvidenzialmente, sono caduti, ed è possibile guardare, come fanno i poeti nati negli anni Settanta o Ottanta, al secondo Novecento come a un territorio esplorabile lungo diverse direzioni. Prendiamo il caso dell’ultimo poeta da noi antologizzato, Massimo Sannelli, che se non sbaglio è nato nel 1973 e ha pubblicato il suo primo libro nel 2002, appartiene cioè in pieno alla generazione che Raboni chiamava postmoderna. Un poeta di soli dieci anni prima avrebbe considerato il suo linguaggio incoerente e incomprensibile, perché vi figurano riferimenti a Sanguineti e comunque a una certa avanguardia degli anni Sessanta, e contemporaneamente riferimenti alla tradizione mistica, in particolare al linguaggio di Luzi, che da un punto di vista storico-ideologico è incompatibile con quella linea avanguardistica e materialistica, eppure nella poesia di Sannelli queste due cose stanno insieme e sono compatibili, perché guarda a questo panorama poetico con uno sguardo diverso da quello dei poeti precedenti, perfino diverso dal mio che sono nato solo cinque anni prima di lui.

Perché nel resto d’Europa i libri di poesia entrano nelle classifiche di vendita, mentre da noi ciò sembra impensabile?

Andrea Cortellessa. Credo che questo discorso valga soprattutto per la poesia anglosassone: negli Stati Uniti e in Inghilterra la poesia può contare su tirature più consistenti che non nei Paesi latini. In quel mondo c’è una grande tradizione per la quale il poeta ha una vera funzione pubblica, pensiamo all’istituzione, che a noi sembra un po’ comica, dei “Poeti ufficiali” delle università americane. Bisognerebbe fare un po’ la storia del rapporto fra poeta e società nei vari Paesi e culture, però si dovrebbe anche sfatare una mitologia negativa sulla poesia italiana. Golino qualche mese fa fece un’inchiesta e constatò che, oltre ad Alda Merini che fruisce di una grande promozione mediatica, altri giovani poeti hanno venduto tra le 2000 e le 3000 copie, cifre che anche i narratori di pari età non raggiungono tanto facilmente. Il paradosso è che in un Paese in cui scrivono poesie milioni di persone, 2000-3000 copie siano considerate una tiratura alta, ma questo è tutto un altro discorso sul quale si può aprire il dibattito. Comunque tutto questo scollamento con la narrativa, per cui gli editori vedono la collana di poesia come la maledizione delle maledizioni e tendono a farla solo per motivi di prestigio, è un discorso che andrebbe verificato caso per caso, autore per autore. Faccio un esempio: Elisa Biagini, un’autrice difficile molto dura, forte e diretta, è stata pubblicata, da perfetta sconosciuta, l’anno scorso e la prima edizione è andata subito esaurita, e adesso si ristampa il suo libro, si pubblica un’antologia di poeti americani a sua cura, insomma si è affermata, a meno di 35 anni, partendo da zero. Questo è ancora possibile e dimostra che bisogna cercare i veri valori e le vere personalità e non affidarsi a una sorta di scouting fatto da altri poeti sulla base del solito folklore poetico italiano.

A chi si deve affidare l’editore per le sue scelte?

Andrea Cortellessa. C’è una nuova generazione di critici che può dare consigli: sono molto fiero di poche cose nella mia vita ma ricordo benissimo che insistetti molto, non solo io naturalmente, perché l’Einaudi leggesse Elisa Biagini e finalmente questi versi vennero letti e il libro venne fatto… Cercare di indirizzare le scelte e valorizzare gli autori è un ruolo a cui oggi i critici hanno abbastanza abdicato, invece questo è il nostro vero compito, dobbiamo riassumercelo.

da LibriAlice.it

Written by matteofantuzzi

13 novembre 2005 at 08:26

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UN FRAMMENTO SU LETTERATURA ED "ECOCENTRISMO" di Wu Ming 1

Tra i "letterati" è poco in voga la comunità. Al contrario, è parecchio in voga il clan, la cricca, il cenacolino, il conciliabolo, l’unione temporanea tra narcisisti che si dicono a vicenda quanto sono bravi e incompresi, nel lasso di tempo che precede il loro scazzarsi e mandarsi a cagare. E’ molto in voga l’autonarrazione consolatoria ("Io sono un grande, ma non mi capiscono", "la cultura è morta, per questo non trovo spazi"), narrazione che diventa ineluttabilmente *circle jerk* (cioè il farsi reciproche seghe disposti in circolo) e questa inefficacissima terapia di gruppo viene addirittura spacciata per "resistenza", le si attribuisce addirittura un qualche valore "politico".
In questo tipo di comportamenti si sente sì, il "gelido gravame" del mito dell’autore (mito romantico, decadentista, "maledettista", ombelicale, in ogni caso tremendamente egocentrato e "antropocentrico" nell’accezione più negativa possibile). Pesa diverse tonnellate e curva le spalle proprio di chi si crede erede di una tradizione di schiena diritte, l’Autore in atteggiamento di sfida titanica, gambe larghe e pugni sui fianchi, sul promontorio dei secoli.
Sarebbe ora che i miei colleghi si "sgravassero" le spalle dal fardello di un’idea di autore che è in realtà recentissima, e riscoprisse (in questo anche e soprattutto la rete può aiutare) la dimensione *ecocentrica* dello scrittore. "Eco" viene da "oikein", abitare: lo "scrittore residente" di cui parla Peter Bichsel, il poeta/narratore come membro di una comunità, anzi, di tante comunità a cerchi concentrici, erede di figure che esistono dall’alba dei tempi, dall’aedo al griot, dal bardo al trovatore, dal cantastorie al puparo etc. La scrittura, la poesia, la narrazione come *doni alla comunità* e come mestiere di vivere con gli altri.
[La poesia che torna "ad alta voce" è un altro dei segnali di una presa di coscienza in questo senso. Peccato che alcuni autori "razzolino bene e predichino male", nel senso che sono in grado di fare serate belle e di nuovo *ecocentriche*, eppure teorizzano il peggior *antropocentrismo* artistico e *umbilicocentrismo* autoriale.]
Per una piena riscoperta dell’ecocentrismo in letteratura, occorre scollarci dalle ossa i muscoli infiammati e rattrappiti. Serve un massaggio energico. La rete ci costringe a fare i conti con una dimensione di "apertura" e ci sfida a confrontarci con nuove possibilità, col costante rischio di "sbracare". Ci obbliga a cercare un equilibrio. Ci costringe a mettere in discussione l’ego, a relativizzare la figura dell’Autore. Per questo, nonostante tutto, la amo come la pupilla dei miei occhi, come la pupilla degli occhi di tutti.

Written by matteofantuzzi

5 novembre 2005 at 07:50

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