UniversoPoesia

Da Matteo Fantuzzi quanto di buono offre la poesia italiana contemporanea. Forse.

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Difendersi dal contagio di Marco Merlin
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Ma siamo proprio sicuri che nostro compito sia diffondere la poesia? Se mai fosse possibile, davvero noi vorremmo vedere un angolo di poesia al supermercato, con qualche giovane e qualche adulto che, di tanto in tanto, vi getti lo stesso sguardo con cui si muove fra bestseller e CD? Davvero noi vorremmo trovare una trasmissione brillante, e con ascolti del tutto rispettabili, nei programmi serali (non notturni) delle tivù? Davvero noi vorremmo veder volantinare versi a volontà, come fossero dei toccasana per le nostre animelle allitteranti?
Ammiro, sia chiaro, quelli che si alzano a declamare i loro testi nei grandi magazzini dove si vende l’ottimismo accanto ai panettoni, ma quando dietro a tali cavalieri erranti si avverte il mormorio di una folla che protesta, che chiede una politica più avveduta, provo una strana inquietudine. L’idea di poesia che monta in tutti questi pseudoragionamenti è falsa, la si confonde con una specie di caramella, un gadget innocuo, anzi un vaccino contro il male di vivere. E allora tanto vale cominciare prestissimo a diffonderlo, d’altronde i nostri pargoli accanto al seno materno succhiano già pubblicità pensata per loro, per quando saranno consumatori: si pensino perciò attività per la poesia nelle scuole elementari, ma che dico, si moltiplichino i concorsi fin dalle scuole dell’infanzia, si registrino i versi degli infanti, se si vuole salvare l’umanità dal disastro! Non è forse il nostro slogan «la bellezza salverà il mondo»? Bisognerà rivedere anche il protocollo di Kyoto, prima o poi. Del resto, quanto a un partito che prenda, come simbolo, la ginestra, c’è chi ci ha già pensato.
Per fortuna, invece, la poesia non è merce pubblicizzabile né strumento di educazione sociale, ovvero megafono di qualsivoglia ideologia. Un suo spazio connivente con il sistema o di contestazione sullo stesso piano è impensabile — e, detto tra noi, se ci fosse, vi immaginate la lotta feroce dei poeti per stare nella top ten? Già adesso è un bel farsi le scarpe l’un con l’altro…
No, è un bene che la poesia sia marginale perché è un luogo di autenticità in un mondo falsificante. Attribuirci il compito di promuoverla per salvarla è insieme una presunzione, un modo per darci un tono e un’ingenua giustificazione per la nostra vanità. La poesia non va promossa, va preservata. Non va reclamizzata, va suggerita con tremore. La poesia non è una chiamata generale, è una risposta personale: lavoriamo semmai sulla possibilità della domanda.
Intendiamoci: questa non è una dichiarazione di sfiducia e una dismissione di impegno, ma l’opposto, dal momento che chi è contagiato dalla poesia non porta con sé l’entusiasmo del neofita (chi pensa questo non ha superato l’adolescenza), ma la solitudine, il silenzio, la solidarietà profonda… Chi conosce la potenza terribile della poesia è ben lieto che molti ne stiano alla larga. Voi vi assumereste veramente la responsabilità di dare in mano Leopardi, per dire, a un giovane, senza poterlo seguire e guidare nella scoperta della visione delle cose che la poesia elabora? Se sì, confondete la scrittura con un bell’esercizio di fantasia e arte parolaia e avete bisogno di rileggervi gli autori che rischiate di spacciare a cuor leggero.
Aprite questa rivista, perciò, solo se siete già stati toccati dal contagio e cercate un luogo di condivisione, ma senza facili, ipocriti conforti. Questo è un manuale di sofferenza, una guida per la rielaborazione del male che ci segna nel corpo, per trasformare (talvolta, sì, ci si riesce), le lacrime in tracce di una gioia meno fatua e meno ottusa. Non fatelo circolare avventatamente fuori del lazzaretto: guardate sempre negli occhi la persona a cui osate porgere un dono così prezioso.

Written by matteofantuzzi

3 febbraio 2008 a 10:32

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32 Risposte

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  1. editoriale del nuovo numero di atelier, oh io nei supermercati a leggere ci sono stato. non mi ha emozionato. meglio fare qualcosa di serio nelle librerie dei supermercati, con persone che vogliono conoscere la poesia. meglio andare tra le persone che vogliono poesia, piuttosto che farla cadere “a pioggia” pensando a priori che sia una gran figata. meglio lavorare per proporre buona poesia…

    matteofantuzzi

    3 febbraio 2008 at 10:38

  2. notizia di cui sono molto felice, è finalmente nata la casa editrice “l’arcolaio”, i primi libri sono filippo davoli, lorenzo carlucci e francesca sallusti. auguro ogni bene a questa nuova casa editrice e di pubblicare sempre libri che valga la pena leggere. link della casa editrice a sinistra.

    matteofantuzzi

    3 febbraio 2008 at 10:42

  3. Grazie grazie assai, nipote Matteo

    Gianfranco

    nestore22

    3 febbraio 2008 at 17:59

  4. Sapevate che il diavolo ha pubblicato un libro di poesie ? La poesia la scrivono proprio tutti…

    michelefabbri

    3 febbraio 2008 at 18:41

  5. Caro Marco,

    ho letto con molto interesse il tuo editoriale e adesso, visto questo spazio per il confronto, mi provo a dire cosa ne penso. È chiaro che, seppure con molta leggerezza e ironia, tu tocchi uno dei punti fondamentali del problema. Ne parla anche, tra gli altri, affrontando tematiche in qualche modo concomitanti, Berardinelli nel suo ultimo libro, in un breve ma intenso saggio intitolato “Come insegnare letteratura moderna”. Il nodo centrale, mi pare, è proprio il rapporto tra singolarità irriducibile del testo poetico e comunità, tra apertura “pedagogica” e sociale e solitudine anti-ideologica, se così possiamo dire. Il tema mi sta particolarmente a cuore. Potrei iniziare con il dire che spesso un modo troppo semplicisticamente orientato di “diffondere” la poesia coincide con una non troppo indagata maniera per “difendersi” dalla medesima: diffondere/difendersi sono due parole che spesso non stanno vicine solo a livello fonico. La diffusione implica infatti quasi sempre delle strategie difensive, che abbassano il tasso di alterità del testo, la sua ingestibilità e ingovernabilità e rischiano, come tutti sappiamo fin troppo bene, di omologare e ideologicizzare la poesia. Ora, mi pare che nel nostro tempo (post)postmoderno, dove da ogni parte viene esaltata l’apertura, la creolizzazione della lingua e dei codici, esaltando presunte (e spesso presuntuose) alterità, i meccanismi di chiusura e di immunizzazione coincidano proprio con l’apertura (e non solo in ambito estetico): essi danno vita infatti ad un contagio di tipo fittizio, ad una sua simulazione virtuale e quasi sempre staccata dal corpo (di chi scrive o legge) a corpo con il testo; in pratica, il tutto funziona spesso come un meccanismo immunitario e omeopatico che, nel momento in cui sembra accettare il contagio dell’elemento estraneo, lo fa solamente in funzione difensiva, come succede con gli antibiotici o con i vaccini, per rinforzare lo stesso sistema immunitario. La poesia, del resto, e l’estetica in generale, non può tuttavia nemmeno permettersi il lusso dell’esclusività, della diversità assoluta nei confronti dell’altro: anch’essa, infatti, rischia di rimanere immunitariamente difensiva. Preservare la diversità non significa insomma renderla “esclusiva” (con tutti i significati, positivi e negativi, che la parola implicitamente racchiude) quanto piuttosto avviarsi verso una pratica dell’inclusività che sappia dare ragione della differenza del testo poetico senza ingabbiarlo tra le mura della famosa torre d’avorio. È paradossale, ma la poesia rischia spesso di venire trattata come i ragazzi diversamente abili: inseriti nella scuola e nei vari contesti della società sottolineando il fatto che sono “speciali”, che hanno “anche loro” infinite possibilità e talenti, ecc. In questo modo, del resto, non si fa altro che mantenerli nel cerchio protettivo e paternalistico, autodifensivo e falsamente benevolo, del cerchio (o aureola) che impedisce loro il rischio vero del confronto con l’altro: diritto vero ad una crescita non “nonostante” ma “in quanto diversi”. Che la poesia sia davvero una possibilità anche quando si comporta come un ragazzo autistico dipende dal contesto, poiché ogni “handicap” è anche una questione sociale (non assoluta) e che dipende dal nostro modo di vedere e di metterci in contatto (ma anche da cose molto più semplici e terra terra, come ad esempio, per un ragazzo disabile, il fatto che ci siano o meno strutture costruite capaci di renderlo autonomo: e questo è sicuramente un problema politico e sociale). E da questo punto di vista mi pare allora che sia chiaro che il falso buonismo e la falsa “democraticizzazione” siano i luoghi deleteri dell’incontro, e che ci debba essere per forza di cose anche uno “scontro”, un attrito in cui riconoscere l’altro significa ricapitolare la nostra stessa auto-costituzione in quanto soggetti e in quanto società: solo in questo momento altamente rischioso di crisi c’è, mi pare, una vera possibilità di contatto, quando cioè non viene scartata neppure la possibilità del rifiuto, del no, dello scontro e della chiusura. Altrimenti si finisce sempre nel gioco combinatorio, nella parificazione alienante, in quella euforia funebre della comparazione che purtroppo sta dettando legge in molti campi, anche accademici, soprattutto per chi, come il sottoscritto, si occupa di intercultura e di letterature comparate. Il paradiso della comparazione è spesso un paradiso falso. E, da questo punto di vista, come sosteneva Antonio Moresco in un suo scritto di qualche anno fa “la letteratura è in paradiso: meglio, la letteratura è il paradiso”. Un paradiso a cui non credo perché sorretto da un fondo nichilistico ormai dato per ineluttabile, dove tutto è possibile ma solo, a ben vedere, virtualmente. Questo non significa che occorre esaltare il dolore, la solitudine, quanto piuttosto rimettere in circolo dolore e solitudine, disperazione e speranza. E mi pare che la cosa più difficile sia proprio il confronto pericoloso e devastante con lo scandalo della speranza, della possibilità e della potenza (intesa rettamente, in senso aristotelico) – poiché ormai la disperazione ci fa comodo, è comoda e confortevole: è la poltrona o la sedia a rotelle su cui scivola senza troppa consapevolezza lo stesso postmoderno nel suo gioco enigmistico e ricreativo (nel senso proprio della ricreazione scolastica, non in quello vero e semiogenetica), anche attraverso quegli “stili dell’estremismo” che sempre Berardinelli ricordava, e che di “estremistico” hanno in realtà ben poco.

    Andrea ponso

    anonimo

    3 febbraio 2008 at 20:30

  6. Caro Andrea,
    ti ringrazio del contributo, molto profondo, alla riflessione. Riconosco in effetti i tuoi temi e le tue immagini. Strani meccanismi, dunque: il dono è spesso un’offesa, e il miglior modo per dare è sottrarre (creare spazio di accoglienza vera, non di espansione confermante del sistema). Per contro, spesso chi dona in modo non offensivo sta vendendo qualcosa di preconfezionato, e non raramente il riscontro che ottiene è il successo. Tutto ciò, secondo me, va legato pure al senso del fare critica: se alla critica manca il giudizio, se non “rompe” con il sistema o i sistemi (testo, lettore, società, autore…), manca del suo durbo nerbo donativo… O deliro?
    Poi, sul versante più umano, vivo anch’io, come tutti, credo, e in particolare tutti i poeti, questi paradossi, la cui vera difficoltà non è la solfa teorica, il piffero incantante dell’elucubrazione, ma la reale traduzione in gesti, scelte di vita, slanci e ritrosie, stili di comportamento… Io so, per esempio, di aver molto “offeso” e di aver molto cercato la solitudine da restituire in ascolto, con tutti gli indigestibili attriti che questo ha comportanto – e dico indigestibili anche e soprattutto per me. Esiste un equilibrio tra questi due movimenti? Esiste un ritmo non critico? Ogni volta che mi sembra di averlo trovato, mi scontro con un’illusione…
    Un abbraccio,
    Marco M.

    anonimo

    4 febbraio 2008 at 13:38

  7. Sig. Merlin, non mi trovo affatto d’accordo con questa figura di poeta “diversamente abile”, e dissento partendo da un assunto che si trova nel post, permettendomi di riadattarlo al mio pensiero.

    “La poesia è una chiamata generale, a cui va data una risposta personale.”

    La poesia non è mai stata pubblica, non si è mai confrontata con le bocche della gente, la poesia non è mai scesa in strada.
    Ma bisogna intendersi sul significato di poesia, che per me possono essere 500.000 palline che rotolano da piazza di spagna, per qualcun altro sono parole.
    Ecco, anche questa cosa che il poeta usi esclusivamente le parole mi sembra molto riduttivo per il nostro secolo “post-post-moderno”, e mi meraviglio che maestri della metafora quali dovrebbero essere i poeti non abbiano ancora realizzato sé stessi come metafora, e i loro gesti come poesia.

    Pensare di scardinare la cecità della società per la poesia con parole flebili sussurrate di orecchio in orecchio è una pia illusione, che perdura da centinaia di anni.

    Colpire le persone con un maglio metaforico riconducibile alla poesia e poi, alla domanda, “ma questo cos’è? “Rispondere “è poesia” e mettergli un libro in mano forse aiuterebbe di più.
    Guardandoli negli occhi.
    La persona che assiste magari non leggerà il libro, ma tornerà a casa con una parola nuova per la testa, un atto di bellezza che, se si evolvesse, forse non potrà salvare il mondo, ma ricontestualizzarlo, foss’anche per qualche minuto, forse sì.

    Alessandro Ansuini

    anonimo

    4 febbraio 2008 at 16:09

  8. il problema di cosa sia poesia è vitale alessandro (alessandro con cui tra parentesi proprio anche su queste cose faremo il workshop il 12 aprile all’università di bologna, e l’altro matto è luca paci): quali regole definiscono una poesia ? quali regole definiscono cosa sia poesia, e cosa (magari) un’azione con una buona dose di poetica ? e perchè in italia almeno un milione di persone definisce i propri pensieri in libertà come poesie. il discorso che io mi sento di fare sempre è “bisogna avere dignità di chi si fa ogni sera da mangiare anche se non fa alta cucina, ma si cuoce due uova e con quelle è sazio”. il paradosso secondo me sta lì, perchè c’è il rischio che a proporre qualche modello troppo in alto nessuno lo voglia raggiungere e se ne crei uno posticcio sulla terra. il problema è portare l’alta cucina nelle case di tutti, magari alla fine si scopre che gli elementi sono quelli poveri che tutti abbiamo nel frigo, ma che è il lavoro dell’artigiano a rendere quei piatti degni di nota (e la materia prima, ça va sans dire…)

    matteofantuzzi

    4 febbraio 2008 at 17:22

  9. Io personalmente ritengo che la poesia sia un compotamento.
    Che risieda trasversalmente in un atto, in un’opera, in un’omissione o in una frase.
    Poesia è perdonarsi.
    Mi ritrovo con le parole di un mio amico pazzo:
    “La poesia è una cosa troppo difficile da descrivere a parole”

    So quello che non è:
    critica, recensioni, concorsi, premi, gossip, libri.

    Immagino quello che possa fare: veicolare bellezza.

    ansuini

    4 febbraio 2008 at 17:29

  10. La poesia, sempre il solito ritornello
    di gabbiani sparuti che chiedono
    all’alba dov’è il mare perchè la
    petroliera l’ha nascosto e quando
    giunge sera il colore è sempre uguale.

    oppure…

    Quando leggo alcune poesie
    la tristezza mi assale
    per lo spreco di Infiniti che limitano
    il finito di chi ha ben poco da dire!

    Marco

    poesiaoggi

    4 febbraio 2008 at 21:15

  11. Gentile Ansuini,
    credo anch’io, in effetti, che compito del poeta sia anzitutto rendere poetica la propria vita, ma credo che anche in questo ciascuno abbia il proprio stile. Non tantalizzi la poesia con la sua personale poetica.
    Strano, quindi: lei non è d’accordo con me e io sono d’accordo con lei…
    MM

    ilcielodimarte

    4 febbraio 2008 at 21:23

  12. Gentile Merlin, dissentivo sulla paura sua del contagio, che io invece auspico.
    Non tantalizzerei mai, non so nemmeno che significa.

    anonimo

    4 febbraio 2008 at 21:28

  13. #11

    penso che compito del poeta sia quello di rendere “viva” la propria vita, aspetto fondamentale che, a mio avviso, manca. La poetica del “vuoto qualunquismo” non giova a nessuno e tanto meno ai lettori.

    Marco

    poesiaoggi

    5 febbraio 2008 at 09:26

  14. Chiederei a MM cosa significa il suo articolo nel concreto, tanto per la critica quanto per i poeti e infine per i lettori.

    Magari, che il discorso critico letterario va lasciato ai dottori di ricerca in lettere? Sono d’accordo. Magari, che ai poeti viene chiesto un tirocinio creativo che sfoci in una raccolta tradizionale scritta (il classico saggio di fine anno o la tesina di fine formazione), come nei Master of Arts di impostazione anglofona? Sono d’accordo anche su questo. Infine, che i lettori comprendano e si sforzino di condividere cio’ che sta alla base del protocollo della critica e del tirocinio dei poeti; cioe’ che siano essi stessi dentro il discorso e chi sta fuori stia fuori? Tombola, anche questo mi vede concorde.

    E allora, qual e’ il punto per i poeti oggigiorno? Riuscire a separare poeticita’, eticita’ e simili sentimenti / atteggiamenti dal nudo testo (o dalla tecnica), almeno nella fase di tirocinio, che dalle mie parti si chiama benchmark & validazione. Dopo la validazione (ripeto: DOPO), ognuno segua la strada che ritiene piu’ opportuna: solotesto, performance, comportamento, ecc.

    Eviteremmo cosi’ ogni volta di riscoprire la ruota e rifriggere atemporalmente gli stessi discorsi, aderendo ad una traiettoria riconoscibile (ognuno la propria) che comunque parte da un passo formativo/abilitante condiviso. —GiusCo—

    anonimo

    5 febbraio 2008 at 15:29

  15. Mi permetto di lasciare qui di seguito l’indirizzo di una rivista di cui sono redattore, dove ci siamo occupati, proprio nell’ultimo numero, del tema del “contagio” da svariati punti di vista e prospettiva… sperando che possa essere utile: http://www.trickster.lettere.unipd.it

    andrea ponso

    anonimo

    5 febbraio 2008 at 19:43

  16. confermo per quello che qui si fanno gli stessi discorsi da anni, ma c’è anche un motivo: credo che ognuno di noi riceva in posta elettronica lavori autoconsiderati dagli autori poesia e che invece sono gioiosi (o meno) pensieri in libertà contornati da qualche “a capo”. e a quel punto mi dico: allora non s’è fatto abbastanza. ora bisognerebbe sfruttare i luoghi e le riflessioni per ragionare concretamente attorno al problema, e poi agire. ma agire seriamente. io non sputo e non ho mai sputato e non sputerò mai sul ritorno di una critica con le contropalle, poca e fatta bene che vada a definire tutto il lavoro sporco che un mezzo come questo va a fare. ed è un esempio: come il fatto che chi vuole maneggiare questo strumento deve conoscerlo, i libri il poeta li deve leggere. poi si può discutere se la poesia è “popolare” (per me sì, o meglio è “da popolare”) e che ruolo deve avere la “carta”. ma questo deve essere fatto su più livelli, anche nelle università (e mo’ linko trickster, grazie andrea)

    m.

    anonimo

    6 febbraio 2008 at 12:44

  17. Commenti.[..] Leggo qui: http://universopoesia.splinder.com/post/15783550#comment una diatriba interessante cui partecipano, tra gli altri, Alessandro Ansuini e Marco Merlin. Mi soffermo su questo commento: Chiederei a MM cosa significa il suo articolo nel concreto [..]

    LittlePot

    6 febbraio 2008 at 15:44

  18. io scrivo poesie da sempre e da poco sono uscita allo scoperto. E’ vero che non si può pensare la poesia al supermercato, però si dovrebbe trovare una strada per farla ancora trovare, soprattutto a chi sta crescendo e ha bisogno di respirare. Io ho scoperto a scuola poeti da ragazzina e per me è stata una rivelazione. Forse ci vuole un equilibrio tra il preservare e il diffondere. Ciao Paola R.

    PaolaRenzetti

    6 febbraio 2008 at 20:28

  19. Rispondo a LittlePot, che cita il mio commento al #14.

    Mi piacerebbe un rafforzamento delle competenze; mi piacerebbe cioe’ che le 100-200 persone che in Italia si occupano a livello professionale di critica, scrittura e lettura di poesia contemporanea, diventino magari 1000-2000, e che condividano un vocabolario di base, una minima bibliografia e il percorso di validazione. Il mio nemico e’: il Dilettante. —GiusCo—

    ps. grazie Andrea, ottimo link, seguiro’ con attenzione; se riusciste ad aprire a qualche pensatore analitico (in grado magari di tenervi piu’ stretti sui modi della filosofia della scienza), verrebbe un insieme ancora piu’ interessante. In ogni caso, buon lavoro, ho molto gradito.

    anonimo

    6 febbraio 2008 at 20:54

  20. Caro Giuseppe,
    sono felice che Trickster ti sia piaciuto. E mi pare giusto quello che suggerisci, e anzi lo stiamo cercando… avevo pensato all’amico Stefano Moriggi, filosofo della scienza che forse conoscerai, ma se mi dai la tua disponibilità potresti esserci anche tu, a seconda dell’argomento del numero. In effetti stiamo lavorando al prossimo numero che sarà sul “canone interculturale” e ci manca un discorso sulla scienza…se hai voglia di scrivere qualcosa prova a inviarmelo (andrea.ponso@libero.it) magari riusciamo a inserirlo anche a numero già uscito, oppure potrebbe essere valido per i prossimi numeri e discussioni. Grazie, un abbraccio

    andrea ponso

    anonimo

    6 febbraio 2008 at 23:04

  21. Concordo con GiusCo. Il mio nemico è il dilettante, e più ancora quello che s’è convinto di non esserlo più.

    anonimo

    7 febbraio 2008 at 00:45

  22. Manca la firma: FilippoDavoli.

    anonimo

    7 febbraio 2008 at 00:45

  23. Interresante rivista Andrea!Non la conoscevo. Spero che venga messa nei link dai blog in modo da diffonderla il più possibile…

    Un saluto caro

    Luca Ariano

    anonimo

    7 febbraio 2008 at 13:48

  24. se tutti quelli che hanno un blog che si occupa di letterature e intercultura hanno voglia di inserirla a me e alla redazione farebbe molto piacere. Vi ringrazio in anticipo e vi terrò aggiornato sulle uscite dei prossimi numeri… pur non essendo previsti i commenti, potrebbe diventare un ulteriore spazio di confronto e di discussione. Grazie ancora a chi vorrà diffondere la notizia, un abbraccio a tutti,

    andrea ponso

    anonimo

    7 febbraio 2008 at 22:52

  25. Leggere al supermercato non rende la poesia meno marginale, interrogarsi sulla nostra marginalità è forse più istruttivo, marginale non è la poesia , ma la condizione di autoesilio nel quale molti, me compreso si sono relegati, l’incapacità di uscirne non è diventata solo un blocco relazionale , ma una condizione del dettato
    un caro saluto
    alessandro assiri

    alessandro62

    8 febbraio 2008 at 10:51

  26. questo commento di cuccaroni è stato erroneamente inserito nel post precedente, lo rimetto qui dove dovrebbe stare

    “Caro Marco, sono Valerio Cuccaroni. Ho letto con attenzione il tuo editoriale e non concordo con la tua visione, sebbene ben argomentata come al tuo solito. Ho cercato con rispondere, illustrando una modalità pratica più o meno antitetica. Mi piacerebbe che ne discutessimo pubblicamente. Leggi il post Poesia di classe su http://www.absolutepoetry.org e fammi sapere cosa ne pensi. Naturalmente, sono invitati a dibattere anche i lettori del blog di Matteo (che saluto!) e chi voglia confrontarsi sul tema della diffusione della poesia.”

    matteofantuzzi

    9 febbraio 2008 at 19:08

  27. (l’equilibrio di paola mi piace molto)

    matteofantuzzi

    9 febbraio 2008 at 19:09

  28. Mi permetto d’esprimere un pensiero: la poesia parte da sè stessi non dai “supermercati” ti trova non la trovi. Bisogna insegnare ad ascoltarsi onestamente, a non aver paura dello sconquasso emotivo che porta da cui attingere, osare. La poesia ha bisogno di tempo, oggi diventato chimera.

    Buona domenica
    anto

    anto13nella

    10 febbraio 2008 at 10:19

  29. Grazie Matteo.
    E’ difficle dire che cosa sia questo equilibrio, vedo che qualcun’altro lo ha rilevato. E’ difficile quando si scrive evitare il banale, ma anche la ricerca estrema dell’originalità può diventare banale. Mi viene da pensare che la poesia (più o meno grande) debba però trovare strade per parlare alla gente. Pensiamo ai grandi, loro l’hanno fatto. Oggi alcuni cantautori riescono a farlo. Perchè non dovrebbero riuscire i poeti?

    PaolaRenzetti

    10 febbraio 2008 at 10:32

  30. c’è una dimensione privata, individuata da antonella. e poi c’è una dimensione per gli altri, preferisco non fare la “gara” con la canzone d’autore che usa altri mezzi e che tra parentesi è “anche” un business mentre spero davvero la poesia possa rimanere fuori quanto più possibile dai discorsi economici. sicuramente questo non la esclude dal dovere parlare agli altri, se no perde parte della sua funzione, necessariamente.

    matteofantuzzi

    10 febbraio 2008 at 17:40

  31. io penso che la poesia nasca quasi sempre da un evento esterno, da una situazione che ci colpisce, da un’immagine anche, che può avere il potere di smuovere in noi alte corde, che può scontrarsi incontrarsi con la nostra intimità provocando quella forma di scintilla che è la scrittura del verso.

    ciao
    Chapucer

    Chapucer

    12 febbraio 2008 at 06:50

  32. pensi bene 🙂

    matteo.

    anonimo

    13 febbraio 2008 at 19:50


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